Equazione di Drake e Paradosso di Fermi: come ignorare le complessità e dichiararsi padroni dell’universo

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Evidentemente la ricerca sulla vignetta degli alieni non è andata a buon fine!

Durante l’estate del 1950 Enrico Fermi, uno dei padri dell’era atomica, insieme ai suoi amici Edward Teller, Emil Konopinski e Herbert York, stavano camminando sotto il sole caldo del Nuovo Messico per recarsi a pranzo nella caffetteria del Laboratorio di Los Alamos. Casualmente quel giorno la conversazione toccò l’argomento dei dischi volanti e secondo Teller, la chiacchierata fu piuttosto breve e superficiale su un argomento solo vagamente correlato ai viaggi nello spazio. Uno di loro aveva da poco visto una vignetta su The New Yorker che ritraeva alieni intenti a rubare bidoni dell’immondizia, e così discussero sul tema dell’ovvietà che i dischi volanti non siano reali.

Lo scambio di vedute immancabilmente sconfinò per un certo tempo nei tristi meandri della matematica, quando a un certo punto, come ricorda Konopinski, Fermi li sorprese con la domanda: “Ma dove sono tutti quanti?” Il suo modo forse troppo scollegato per dirlo innescò una certa ilarità tra i presenti, anche se era chiaro che il soggetto fosse la vita extraterrestre e secondo York, egli proseguì con una serie di calcoli sulla probabilità della vita umana, la probabile emersione e la durata di tecnologie avanzate e così via, concludendo sulla base di tali calcoli che l’evenienza di civiltà intelligenti a noi vicine poteva essere molto alta e che probabilmente siamo stati visitati da alieni molto tempo fa e per molte volte ancora. Questa conversazione informale è stata la base sulla quale è stata in seguito costruita la celebre equazione di Drake, un esperimento concettuale speculativo sulla statistica che tenta di esplorare matematicamente le probabilità di vita aliena intelligente in questa zona dell’universo e in questo periodo storico. Naturalmente la soluzione “reale” dell’equazione di Drake non è la risposta in sé, lo sono piuttosto le domande che essa può generare nel tentativo di risolverla.

Enrico Fermi era noto presso i suoi studenti per la sua abitudine di eseguire a mente stime di ogni tipo di grandezza. Una volta chiese ai suoi studenti quanti accordatori di pianoforte ci fossero a Chicago: il modo in cui calcolò la risposta assomiglia al tipo di ragionamento sotteso all’equazione di Drake. Fermi suppose che Chicago dovesse avere circa tre milioni di abitanti, e che circa una famiglia su venti dovesse possedere un pianoforte. Se la famiglia media è composta da cinque elementi e un piano richiede in media un’accordatura all’anno, e se un accordatore può eseguire due accordature al giorno per 200 giorni all’anno, allora Chicago ha bisogno di 75 accordatori. Il risultato è dato semplicemente dal prodotto dei fattori elencati, ma ammetto di non averli calcolati personalmente.

Fermi e i suoi amici azzardarono alcune risposte plausibili alla fatidica domanda, ad esempio le enormi distanze dello spazio vanificherebbero ogni sorta di viaggio interstellare, e quand’anche ciò fosse possibile, potrebbe non valerne lo sforzo per conseguirlo, oppure ancora che civiltà avanzate potrebbero non sopravvivere abbastanza a lungo per raggiungere il livello tecnologico sufficiente a decollare per compiere viaggi interstellari. Da allora sono innumerevoli i tentativi di proporre strane, nuove soluzioni all’ambiguo paradosso, alcune diventate best seller come il saggio di Stephen Webb, Fisico teorico e collezionista di soluzioni al paradosso di Fermi, tradotto in italiano con il titolo “Se l’Universo brulica di alieni… dove sono tutti quanti?” Certo, ogni soluzione è limitata dalla conoscenza acquisita e dalla nostra capacità di teorizzare, pur con tutte le astrazioni che ci sono concesse dalle nostre enormi limitazioni cognitive. La questione tuttavia non può privarsi di ogni sorta di complessità…

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Ipotesi sulle biochimiche aliene (come diventare antisciovinista)

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Andromeda, il malefico virus del film omonimo, 1971

La ricerca scientifica che si occupa di verificare l’esistenza di intelligenza extraterrestre, nota con l’acronimo SETI, si basa essenzialmente su rilevazioni di onde elettromagnetiche, per la maggior parte onde radio, ma anche nell’infrarosso o nelle bande dei raggi X, oltre a impulsi ottici caratterizzati da particolari frequenze. Questo riduzionismo esplorativo ovviamente non copre che una parte molto limitata dello spettro a varietà incognita che ci troviamo a fronteggiare, in pratica stiamo cercando un pagliaio con un ago…

Sembrerebbe quasi che oltre un secolo di fantascienza dedicata agli alieni non sia riuscita nell’intento di ampliare gli orizzonti dei ricercatori, colpevole forse di aver calcato troppi cliché stereotipati che dipingono i “diversamente terrestri” esattamente come noi, o al massimo con (più o meno lievi) alterazioni morfologiche, suggerendo così un modello di vita intelligente basato sulla nostra immagine che dimostra tutto il nostro antropocentrismo. Di certo le eccezioni non mancano: numerosi, anche se isolati, sono i tentativi di descrivere forme di vita veramente aliene, che di antropomorfo non conservano più nulla e che della chimica organica se ne infischiano, forme di vita che rientrano a fatica anche nella definizione di vita stessa arrivando al concepimento di impossibili pronipoti di precedenti civiltà ormai estinte, con percorsi variegati, fino al raggiungimento di livelli evolutivi che vanno oltre il concetto di essere vivente, come noi possiamo intenderlo.

Fortunatamente, dato il fascino dell’argomento, numerosi scienziati coraggiosi si sono impegnati anche nell’esplorazione di possibili forme di vita non convenzionali, ipotizzando sistemi complessi basati su biochimiche alternative che potrebbero adattarsi in modo più efficace eludendo le ristrette limitazioni delle cosiddette Cinture Verdi, ovvero quelle regioni dello spazio le cui condizioni favoriscono lo sviluppo della vita di tipo terrestre. D’altronde anche sulla Terra abbiamo esempi eclatanti di quanto estremo possa essere vivere in laghi pregni di arsenico, fosse oceaniche con pressioni eccezionali, vulcani e altre fonti geotermiche, freddi estremi e perfino ambienti radioattivi.

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Come misurare la velocità della luce e quella del … buio!

Una sfera integratrice da 3 metri per la misura di illuminanti di grandi dimensioni.

E’ molto facile, disponendo degli strumenti adatti, misurare le numerose caratteristiche fisiche associate alla luce e alla sua interazione con i materiali, intensità, tonalità, saturazione, coordinate tricromatiche, temperatura di colore, riflessione, rifrazione, lunghezza d’onda e frequenza sono solo alcuni esempi delle principali proprietà che si stimano con apparecchiature specialistiche, spesso sofisticate e molto costose.
Questi parametri sono ampiamente utilizzati da chimici, astronomi, grafici, carrozzieri e formulatori di vernici, dai tecnici video e dai fotografi, e da tutti coloro che operano nei settori in cui la fotometria e la colorimetria giocano un ruolo rilevante.
Misurare la velocità della luce invece, nonostante gli ordini di grandezza che la contraddistinguono, potrebbe rivelarsi un gioco da ragazzi.  E’ sufficiente munirsi di un comune forno a microonde e di un righello! Almeno questo è ciò che si trova con una ricerca superficiale, ma la questione è un po’ più complessa di così…

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La biochimica velenosa della NASA

Un ingrandimento dei batteri GFAJ-1 coltivati con arsenico. Imagecredit: Wikimedia Commons

Finalmente la NASA ha ammesso di aver raccolto incontestabili prove dell’esistenza di microorganismi alieni terrestri che riescono a metabolizzare anche l’arsenico!
Ecco la notizi(ol)a che avrà deluso intere schiere di esobiologi in erba e non solo. E giù di nuovo a sentenziare inverosimili ipotesi di complotti per occultare le prove e insabbiamenti Roswell-style ad esclusivo impiego di chi frigge la solita aria. Tuttavia la ‘scoperta’ è in ogni caso degna di essere approfondita e va giustamente evidenziata, anche con questi metodi che ne esaltano una certa spettacolarità. In fondo la scienza va divulgata con ogni mezzo possibile, e ben vengano questi metodi che rompono gli schemi usuali del comunicato stampa arido, impersonale e monocorde dedicato ad un pubblico di soli addetti. Ma cosa c’è di veramente nuovo, cosa sfugge allo spettatore medio, cosa si nasconde nelle verità nei dettagli che i media generalisti non ci dicono, o non sanno dirci?

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Grafene: dal Nobel alla teoria del tutto

Una simpatica caricatura del premio Nobel per la fisica (2010). Imagecredit: Wired

Grafene, poliedrico materiale, banalmente composto da innumerevoli atomi di carbonio ben allineati (un po’ come ci vorrebbero i nostri governanti), ma dalle mille sfaccettature e infiniti prodigiosi utilizzi, molti dei quali ancora inediti, vezzeggiati in ogni dove subito dopo l’annuncio del premio Nobel.

Nobel che ha donato la notorietà suprema ai giovani scienziati (sembra quasi un ossimoro!) Andre Geim (per esteso Andrej Konstantinovič Gejm) e Konstantin Novoselov (Konstantin Sergeevič Novosëlov), che per primi hanno studiato le proprietà di un materiale bidimensionale così interessante e rivoluzionario, ma che si ottiene con la semplicità dello strappo di un nastro adesivo.

Ma c’è di più, molto di più. E’ in ballo l’essenza stessa di tutte le teorie che regolano l’universo. Trascurando l’aspetto prettamente materiale della scoperta, mi perdonino i due insigniti, sposterei il focus verso i lidi più teorici e ipotetici della meccanica quantistica. La domanda è:

Può la fisica del grafene dimostrarci che lo spazio-tempo è un ologramma, un miraggio?

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Un italiano alla ricerca della radiazione di Hawking

Stephen Hawking durante un'esperienza di volo a gravità zero. Imagecredit: Wikimedia Commons

Pensate a quanto sia frustrante per un curioso della scienza (come me), cercare in rete la notizia del giorno nel campo dell’astrofisica, e scoprire che in italiano c’è un assordante nulla assoluto (al momento in cui scrivo), mentre nell’immenso panorama degli articoli scientifici stranieri c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Ma lo sdegno più antipatico mi assale quando, leggendo uno dei tanti articoli che ho trovato, scopro che la paternità del primo annuncio sulla riproduzione e l’osservazione della radiazione di Hawking (o, per i pignoli, radiazione di Bekenstein-Hawking) è  stata condotta da un team italiano guidato dal dottor Franco Belgiorno (per esteso, Francesco Domenico Belgiorno) dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare sezione di Milano (INFN).

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L’ambasciatore della Terra non è stato avvisato. Interviene il premier

Se un extraterrestre oggi avesse deciso di improvvisare una visita di cortesia al nostro appetitoso pianeta, sarebbe rimasto alquanto deluso per la mancata accoglienza che avrebbe dovuto onorare il primo contatto dell’umanità con una civiltà extraterrestre.

Già, perché come riportato dalle principali testate nostrane (come La Stampa e Il Giornale, tanto per citarne un paio) ispirate dall’AGI e da molte altre testate straniere per niente sensazionalistiche, tra le quali il serissimo Telegraph, e non è da trascurare il sobrissimo Sunday Times, che per leggere la news farlocca però, richiede un modico obolo pari a una sterlina, sempre che non siate abbonati, insomma, tutti annunciano con grande enfasi l’istituzione della prima ambasciata terrestre.

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La NASA annuncia piogge di rane a pois e cumuli di elefanti rosa per il 2013!

Orde di elefanti dal cielo...

Non ci credete? Beh, a dirlo è stato proprio il suo portavoce in persona, che mi ha passato la notizia sottobanco, e ha aggiunto ulteriori succulenti e incredibili retroscena. Ci saranno tempeste di piume, venti eolici, uragani di solerzia, sballi entropici, le crune entreranno nel mondo dei cammelli e Emilio Fede diventerà direttore del TG3.

Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno, anche i muti potranno parlare mentre i sordi già lo fanno. E si farà l’amore ognuno come gli va, anche i preti potranno sposarsi ma soltanto a una certa età. E senza grandi disturbi qualcuno sparirà. Saranno forse i troppi furbi o i cretini di ogni età.

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Marte: progetti di colonizzazione in corso

Il sottile strato atmosferico di Marte visibile sull'orizzonte. Imagecredit: Wikimedia Commons

Ecopoiesi è un neologismo che deriva dal greco (οικος, casa  e ποιησις, produzione) e si riferisce al processo che origina un ecosistema.

Robert Haynes coniò questo termine agli inizi degli anni ’90 iniziando il dibattito sul terraforming dei pianeti extraterrestri. L’ecopoiesi è una sorta di ingegneria planetaria che prepara il terreno, un primo stadio della terraformazione vera e propria, in cui si sfruttano eserciti microscopici, estremisti ambientali e straordinari genieri che si occupano di creare le condizioni primordiali per una successiva sostenibilità delle forme di vita superiori.

Da allora, non sono stati fatti grandissimi passi avanti, se non sul piano teorico,  ma almeno si è arrivati ad una conclusione poco discutibile: i cianobatteri, gli antichi microorganismi fotosintetici che contribuirono a rendere la Terra abitabile 2,5 miliardi di anni fa, colonizzando praticamente ogni più piccolo anfratto del nostro pianeta, possono fare la differenza.

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Lo strano caso dei brillamenti solari e della radioattività scomparsa

Espulsione di massa coronale. Imagecredit: Wikimedia Commons

Sembra proprio che i libri di fisica necessitino di una piccola revisione. Almeno questo è quanto emerge dopo che un gruppo di ricercatori scopre un’inaspettata influenza dei brillamenti solari nel decadimento radioattivo di alcuni campioni conservati in laboratorio.

Questo è ciò che affermano gli scienziati delle Università di Stanford e Purdue, ma la loro spiegazione apre le porte ad un altro insolito mistero.

L’emivita di un isotopo radioattivo, ovvero il tempo occorrente affinché la metà degli atomi di un campione puro dell’isotopo decadano in un altro elemento, è una costante nota per essere poco o nulla influenzata da effetti ambientali, a meno di piccoli errori tipicamente dovuti a questioni di sensibilità strumentale.

150 milioni di chilometri, la distanza media che ci separa dal sole, adottata convenzionalmente dagli astronomi  come unità astronomica, anche se non ancora inserita tra le unità ufficiali di misura del sistema internazionale (SI), potrebbero non essere sufficienti ad impedire una variazione nei tempi di decadimento dei radionuclidi instabili.

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Atlante Digitale dell’Universo (per tutti)

Il Digital Universe Atlas è un progetto avviato dal 1998 dal Museo Americano di Storia Naturale e dal Planetario Hayden, con il significativo supporto della NASA e del NCSA (National Center for Supercomputing Applications).

Si tratta di un atlante digitale, rilasciato con licenza open source, liberamente scaricabile e disponibile per le principali architetture hardware e software (Linux, Windows, Mac e IRIX). Dispone di un motore grafico molto più potente di qualsiasi altra applicazione freeware esistente, tuttavia è ancora poco noto tra gli astronomi dilettanti e consente una visualizzazione dell’universo conosciuto in 4 dimensioni.

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La ricerca SETI non può ignorare le intelligenze artificiali

Lo screensaver del SETI@Home. Puoi averlo anche sul tuo computer!

SETI, è l’acronimo per Search for Extra-Terrestrial Intelligence (Ricerca di Intelligenza Extraterrestre), ed è il nome collettivo che descrive un certo numero di attività rivolte alla ricerca di segnali provenienti dallo spazio. Naturalmente non si cercano segnali qualunque, ma gli algoritmi analitici selezionano solo quelli  che potrebbero essere sintomatici di qualche intelligenza extraterrestre e la ricerca viene condotta rigorosamente tramite l’applicazione del metodo scientifico.  Tuttavia finora, come recita anche la definizione di Wikipedia in lingua italiana, il programma si è dedicato alla ricerca della vita intelligente extraterrestre, e secondo Seth Shostak potrebbe essere un sistema troppo riduttivo.

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Scoperta una pulsar nello spazio profondo grazie al progetto Einsten@Home

Lo screensaver di Einstein@Home

Chi l’ha detto che è necessario diventare uno scienziato per fare una grande scoperta?

Proprio a questo devono aver pensato un bel giorno i ricercatori che lavorano presso i laboratori di Berkeley (University di California), e fu così che il calcolo distribuito in forma volontaria rese partecipi in poco tempo migliaia di utenti, certo, una partecipazione poco impegnativa, ma sufficiente a fornire una potenza di calcolo globale che raggiunge gli strabilianti 5400 petaFLOPS, una misura che indica il numero di operazioni al secondo eseguite dalla CPU, una velocità quasi tripla rispetto ai supercomputer più moderni e veloci come il Cray XT5 (Jaguar).

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Rilevate molecole organiche complesse nello spazio interstellare

Un team di scienziati dell’Instituto de Astrofisica delle Canarie (IAC) in collaborazione con l’Università del Texas è riuscito a individuare una delle molecole organiche più complesse mai scoperte nella materia presente tra le stelle, il  cosiddetto mezzo interstellare. La rilevazione della presenza di molecole di antracene potrebbe contribuire a risolvere un mistero dell’astrofisica vecchio di decenni, che riguarda l’esistenza di molecole organiche nello spazio. I ricercatori segnalano i loro risultati sulla rivista Monthly Notices della Royal Astronomical Society.

Imagecredit: Gaby Perez and Susana Iglesias-Groth

“Abbiamo rilevato la presenza di molecole di antracene in una densa nube in direzione della stella Cernis 52 in Perseo, circa 700 anni luce dal Sole”, spiega Susana Iglesias Groth, la ricercatrice IAC responsabile della ricerca.

La banda che rivela la presenza di antracene è stata rilevata tramite l’analisi delle emissioni spettrali provenienti dalla costellazione Perseus, una pratica comune per la determinazione delle sostanze chimiche di interesse astrofisico.

A suo parere, il prossimo passo è quello di indagare anche sulla presenza di aminoacidi. Molecole di media complessità come  quella dell’antracene sono considerate come un prebiotico, ossia  precursori delle macromolecole sulle quali la vita primordiale ha appoggiato i suoi fondamenti,  così quando sono sottoposte all’energia come le radiazioni ultraviolette e combinate con acqua e ammoniaca, potrebbero produrre amminoacidi e altri composti essenziali per lo sviluppo della vita.

Imagecredit: Wikimedia Commons

“Due anni fa”, dice Iglesias, “abbiamo trovato la prova dell’esistenza di un’altra molecola organica nello stesso luogo, il naftalene, un altro idrocarburo aromatico policiclico formato da due anelli benzenici coniugati. Tutto porta a ipotizzare che abbiamo scoperto una regione di formazione stellare ricca di precursori biochimici.”

Fino ad ora, l’antracene era stato rilevato solo nei meteoriti e mai nel mezzo interstellare. Le forme ossidate di questa molecola sono comuni nei sistemi viventi, pertanto sono biochimicamente attivi. Sul nostro pianeta, l’antracene ossidato è un componente di base delle piante del genere aloe e possiede notevoli proprietà anti-infiammatorie.

Questa scoperta alimenterà sicuramente le speranze per le prossime ricerche sulla vita extraterrestre, donando una rinnovata linfa ‘vitale’ per l’esobiologia (che ne ha tanto bisogno…).

Fonti: http://arxiv.org/abs/1005.4388, PhysOrg via Royal Astronomical Society

La “straordinaria amministrazione” del pianeta Giove

Ultimamente è un po’ malato di protagonismo, quindi non perde occasione per far parlare di sé, ispirando le fantasie di molti articolisti e di blogger improvvisati come questo che state leggendo.

La scomparsa della fascia meridionale

Facciamo un breve riassunto:

all’inizio del mese di maggio del 2010, viene denunciata la scomparsa di una delle fasce brune che caratterizzano l’aspetto del pianeta. La prima foto  del 9 maggio proviene da un astronomo dilettante australiano, Anthony Wesley da Murrumbateman, sito nel New South Wales con un telescopio da 14,5 pollici. Wesley era impaziente per il ritorno di Giove nel campo visivo dopo i tre mesi in cui era occultato dietro al disco solare, in quanto nell’ambiente erano già chiari i segni dell’inizio della scomparsa della fascia fin dalla metà del 2009, e l’attesa è stata finalmente premiata!

Un'immagine da Hubble preannuncia l'imminente ritorno della cintura di Giove?

Il fenomeno di dissolvenza si ripete ciclicamente, ma non è possibile prevedere la ricomparsa della fasce,  composte principalmente da ammoniaca solida, fosforo e zolfo, e l’ipotesi più accreditata sembrerebbe attribuirne la causa alla sovrapposizione di una spessa coltre di nuvole che la nasconde. L’ultima volta che si è verificato un tale fenomeno è stato agli inizi degli anni ’70, ma a quei tempi non era possibile osservarlo con le moderne tecniche e le risoluzioni di cui oggi siamo dotati, concedendo così un’occasione rara da sfruttare per approfondire le nostre conoscenze in merito. Alcune recenti immagini sembrerebbero tuttavia preannunciare la ricomparsa della fascia meridionale, grazie alla presenza di una ‘fila’ di incoraggianti macchie brunastre.

La sera del 3 giugno scorso, in maniera del tutto indipendente, lo stesso Wesley insieme a Christopher Go dalle Filippine immortalavano uno strano e relativamente colossale impatto sulla superficie di Giove, lasciando di stucco gli astronomi che si aspettavano una scia di detriti in seguito allo schianto, cosa che accade frequentemente.

Nemmeno con la nitidezza delle visualizzazioni ultraviolette della Wide Field Camera 3 di stanza a bordo del telescopio spaziale Hubble della NASA/ESA è stato possibile trovare tracce o detriti riconducibili al corpo meteorico precipitato. Questo potrebbe significare che l’oggetto non è andato troppo oltre la sua atmosfera, esplodendo probabilmente prima dell’impatto che in realtà potrebbe non essere mai avvenuto.

Giove è il pianeta più grande del sistema solare, una stella mancata secondo qualcuno, e il suo vasto pozzo gravitazionale ripulisce il sistema solare da un gran numero di detriti erranti, proteggendo in qualche modo i pianeti più interni da un’inevitabile e catastrofica pioggia di meteoriti.

Nessun mistero quindi e intanto Giove dall’alto continua a sorridere degli spergiuri degli amanti…

Fonte: Physorg (Hubble scrutinizes site of mysterious flash and missing cloud belt on Jupiter, Jupiter has lost one of its cloud stripes)

Una fuel cell per la ricerca della vita extraterrestre

Lo schema della microbial fuel cell

Come impostereste un test per la ricerca di forme di vita, in dotazione a una sonda spaziale destinata a missioni di ricognizione e osservazione su altri pianeti?

Sembra davvero un problema piuttosto complesso. Negli anni ’70, le sonde Viking della NASA effettuarono tre esperimenti sulla superficie di Marte specificamente progettati per cercare la vita.

Con lo stupore di tutti, questi esperimenti si conclusero con risultati positivi. Ma l’entusiasmo si spense improvvisamente quando gli scienziati  compresero che  gli esiti dei test non erano stati causati da forme di vita, ma dalla presenza di un ambiente fortemente ossidante. Pertanto questi risultati erano solo un falso positivo (anche se non tutti si trovarono d’accordo su questo aspetto).

Da allora, nessun altra sonda ha effettuato ulteriori test per scoprire la vita direttamente, ma l’attenzione si è rivolta verso la raccolta di elementi che siano una prova rivelatrice della presenza di esseri viventi.

Ximena Abrevaya e i suoi colleghi dell’Università di Buenos Aires in Argentina suggeriscono una nuova soluzione a questo problema. Dicono che una cella a combustibile microbico sarebbe in grado di rilevare la vita in modo del tutto indipendente dalla composizione chimica. L’ipotesi sine qua non è basata sul fatto che la forma di vita in questione deve assumere energia chimica dall’ambiente e usarlo per alimentare il proprio processo  vitale, in altre parole deve avere almeno un processo metabolico.

La squadra di Abrevaya ha messo a punto e testato proprio una cella di questo tipo. Il dispositivo consiste in un anodo e un catodo separati da una membrana permeabile ai protoni. L’anodo è incorporato nel supporto a contatto con l’oggetto dell’indagine, come ad es. il suolo marziano.

L’idea è che i processi metabolici, ovunque essi si siano evoluti, devono dipendere da reazioni di ossido-riduzione (redox) che generano flussi di elettroni e protoni. L’anodo della pila a combustibile cattura gli elettroni generati in questo processo, mentre i protoni passano attraverso la membrana, completando così il circuito. Quindi la quantità di corrente che scorre è un indicatore diretto della quantità di vita presente.

Il Viking I

I primi test sono stati svolti determinando la presenza dei principali tipi di vita microscopica: batteri, archaea e cellule di eucarioti. Il team afferma di aver ottenuto risultati incoraggianti, come alcune rilevazioni positive su estremofili (Natrialba magadii, un microorganismo isolato dal lago Magadii Lake in Kenya che sopravvive in condizioni di elevate concentrazioni saline), come quelli che potrebbero esistere altrove nel sistema solare. Le densità di corrente rilevate sono state di gran lunga superiori quando il dispositivo analizzava campioni vitali, rispetto a quelli sterili.

Il dispositivo pertanto si presterebbe come candidato per i prossimi test sull’esobiologia, caricato su un lander potrebbe facilmente prelevare due campioni di suolo, sterilizzarne uno con il calore, e confrontare i due risultati per accertare la presenza della vita.

Ma ciò che più sorprende è che il sistema non necessita di rilevare forme di vita basate esclusivamente sul carbonio. Purtroppo i dettagli di questo aspetto non sono stati approfonditi, probabilmente a causa del fatto che esiste ancora qualche possibilità di ottenere falsi positivi e occorre perfezionare ancora alcuni aspetti del sistema di rilevamento.

Nel frattempo, si potrebbe cercare di ipotizzare, in base alle analisi delle atmosfere extraterrestri, quali siano i migliori candidati per i prossimi test. E’ noto che milioni di anni di azione microbiotica, altera in maniera considerevole la composizione atmosferica. La presenza di ossigeno e metano nella nostra atmosfera è un chiaro segnale dello sviluppo biologico. Purtroppo l’analisi dell’atmosfera di Marte, composta dal 95% di anidride carbonica, è una deludente conferma che invece bisogna rivolgersi altrove.

Che ne dite di Titano o Encelado, due fra i più noti ospiti potenziali di strane, nuove forme di vita aliene?

Fonti: technologyreview, arxviv

I batteri del metano di Marte

Distribuzione del metano nell'atmosfera di Marte durante il periodo "estivo" nel suo emisfero settentrionale

Sembra che ulteriori indizi favoriscano le ipotesi recenti della presenza di una fervida vita microscopica nelle ridenti valli marziane, alimentata dagli squilibri produttivi del metano, che pongono ancora interessanti interrogativi.

Marte possiede un’atmosfera estremamente rarefatta, composta per oltre il 95% da CO2, il resto comprende azoto  (2,7%), argo (1,6%) e tracce importanti di ossigeno, CO, vapore acqueo, NO, ozono e altri gas nobili. Dagli ultimi rilievi del 2004 effettuati dalla sonda europea Mars Express, è stata confermata anche la presenza di metano (CH4) in quantità non trascurabili che si aggirano intorno alle 10 parti per miliardo (10,5 ppb). Per confronto, nell’atmosfera della Terra di metano  ne misuriamo più di 100 volte tanto  (1790 ppb).

L’aspetto intrigante risiede nel fatto che il metano, essendo un gas instabile a causa della sua elevata reattività, implica la presenza di una fonte attiva per esistere, e anche la sua degradazione fotochimica, secondo i modelli teorici, non giustifica questa presenza. Non è giustificabile nemmeno a causa dell’assenza di attività vulcanica e idrotermale sulla superficie.

Il metano su Marte viene prodotto da estese sorgenti, ed i profili implicano che viene rilasciato almeno da tre distinte regioni. In piena estate boreale, la fonte principale emette 19.000 tonnellate di metano in media, con un flusso di 0,6 kg al secondo. A questo ritmo si stima che il pianeta rosso debba produrre circa 270 tonnellate di metano all’anno.

Sebbene la presenza di questo gas potrebbe essere ascrivibile ad un’origine minerale, come sottoprodotto della reazione fra acqua, anidride carbonica e l’olivina, un minerale siliceo presente in quantità sulla superficie di Marte, per confermarlo bisognerebbe determinare la presenza della serpentinite, il prodotto solido della reazione citata. Esiste inoltre la remota possibilità che il metano si formi dalla decomposizione di giacimenti di clatrati idrati, una specie di ‘soluzione’ solida tra metano (e altri gas) e acqua.

L’ipotesi più affascinante però, si avvale della  scoperta che la presenza di metano è sempre associata a quella di vapore acqueo, soprattutto in alcune regioni equatoriali. Il planetologo H. Grinspoon (Southwest Research Institute) pensa che questa coincidenza aumenti le probabilità di un origine biologica.

Lost Hammer Spring presso l'isola Axel Heiberg, territorio di Nunavut, Canada. (Credit: Dept. Natural Resource Sciences, McGill University, Montreal.)

 

Un’ulteriore conferma di queste teorie biogeniche sembra che arrivi proprio in questi giorni, proveniente nientemeno che dai ricercatori del dipartimento delle risorse naturale della McGill University, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche del Canada, dall’Università di Toronto e dal SETI Institute, i quali hanno scoperto la presenza di alcuni batteri metanotrofi (il cui metabolismo consiste in un ciclo ‘alimentare’ a base di metano, contrapposti ai batteri metanogeni), nell’ambiente estremo di un isola a nord del Canada, Axel Heiberg Island.

Il dottor Lyle Whyte, un microbiologo dell’Università di McGill, spiega che la sorgente di Lost Hammer può sostenere la vita batterica in un ambiente anaerobico, e che è molto simile a sorgenti presenti con tutta probabilità anche su Marte, suggerendone una popolazione microbica analoga.

“Il punto della ricerca è che non importa da dove il metano provenga” spiega Whyte. Se in una situazione in cui si dispone di acqua salata molto fredda (anche fino a -50°C!), prolifera una comunità microbica, anche in ambienti senza ossigeno, è lecito ipotizzare lo stesso anche su altri pianeti con condizioni ambientali simili.

Un quesito che rimarrà insoluto ancora per un po’, almeno fino a quando il Mars Science Laboratory (MSL), chiamato anche Curiosity, un rover della NASA che verrà lanciato nell’autunno del 2011 ed effettuerà un atterraggio di precisione su Marte nei primi mesi del 2012, misurerà con il metodo del C14 il metano presente, determinandone l’origine, biologica o meno.

La NASA inoltre ha rivelato l’ambizioso obiettivo di lanciare la missione Mars Orbiter Trace Gas nel 2016, per studiare ulteriormente il metano,  nonché i suoi prodotti di decomposizione, come la formaldeide e metanolo.

Con la speranza che un giorno si riesca a colonizzare anche le sterminate sorgenti marziane, sfruttando impietosamente la popolazione autoctona di batteri indigeni come novelli e futuri microscopici schiavi … Mi auguro che non abbiano una coscienza collettiva proto-comunista da sedare!!!

 

Fonte: ScienceDaily

Betelgeuse diventerà una supernova tra qualche giorno?

In rete impazza l’ultimo coito allarmista che vedrebbe Betelgeuse prossima alla sua fine per trasformarsi catastroficamente in una supernova. Betelgeuse è una stella dell’emisfero boreale, si può distinguere con grande facilità anche dalle grandi città: è infatti la decima stella più brillante del cielo se vista ad occhio nudo. Attualmente si trova in effetti nelle ultime fasi della propria evoluzione stellare, la fase di supergigante rossa, altamente instabile, è infatti il preludio all’estinzione dell’astro. Data la sua grande massa, gli astronomi ritengono che la stella concluderà la propria esistenza esplodendo in una brillantissima supernova di tipo II. Nessuno sa con esattezza quando ciò avverrà e le opinioni sono molto in contrasto fra loro, ma annunciare che la trasformazione in supernova ci coinvolgerà inevitabilmente, magari collocandola nel 2012 per via del fuso orario galattico, fa sempre un certo scalpore.

La costellazione di Orione nell'atlante Uranometria di Bayer; Betelgeuse, designata dalla lettera α, è la spalla sinistra del Cacciatore armato di clava.

Beh, quando la notizia proviene da fonti non primarie, che citano altre fonti anonime o provenienti da qualche strano forum, è meglio partire con un precauzionale scetticismo, che non fa mai male, e magari cercare un’ulteriore riscontro prima di gridare al lupo, sarebbe d’obbligo.

Come sottolinea l’ottimo Bad Astronomy infatti, Betelgeuse si trova almeno a 25 volte la distanza minima affinché possa nuocere al sistema solare in qualsiasi maniera. La variabilità che da alcuni viene ritenuta sintomatica del suo prossimo default, è nota da parecchio tempo ed è parte del suo ciclo naturale, non di un’imminente esplosione.

E poi abbiamo già molto di cui preoccuparci, il global warming antropico, Nibiru, l’Armageddon, il picco del petrolio, i rettiliani e le abduction, senza contare il New Global Order, la pedofilia clericale e pedanti politici, non possiamo proprio permetterci un altro allarme rosso!