Ipotesi sulle biochimiche aliene (come diventare antisciovinista)

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Andromeda, il malefico virus del film omonimo, 1971

La ricerca scientifica che si occupa di verificare l’esistenza di intelligenza extraterrestre, nota con l’acronimo SETI, si basa essenzialmente su rilevazioni di onde elettromagnetiche, per la maggior parte onde radio, ma anche nell’infrarosso o nelle bande dei raggi X, oltre a impulsi ottici caratterizzati da particolari frequenze. Questo riduzionismo esplorativo ovviamente non copre che una parte molto limitata dello spettro a varietà incognita che ci troviamo a fronteggiare, in pratica stiamo cercando un pagliaio con un ago…

Sembrerebbe quasi che oltre un secolo di fantascienza dedicata agli alieni non sia riuscita nell’intento di ampliare gli orizzonti dei ricercatori, colpevole forse di aver calcato troppi cliché stereotipati che dipingono i “diversamente terrestri” esattamente come noi, o al massimo con (più o meno lievi) alterazioni morfologiche, suggerendo così un modello di vita intelligente basato sulla nostra immagine che dimostra tutto il nostro antropocentrismo. Di certo le eccezioni non mancano: numerosi, anche se isolati, sono i tentativi di descrivere forme di vita veramente aliene, che di antropomorfo non conservano più nulla e che della chimica organica se ne infischiano, forme di vita che rientrano a fatica anche nella definizione di vita stessa arrivando al concepimento di impossibili pronipoti di precedenti civiltà ormai estinte, con percorsi variegati, fino al raggiungimento di livelli evolutivi che vanno oltre il concetto di essere vivente, come noi possiamo intenderlo.

Fortunatamente, dato il fascino dell’argomento, numerosi scienziati coraggiosi si sono impegnati anche nell’esplorazione di possibili forme di vita non convenzionali, ipotizzando sistemi complessi basati su biochimiche alternative che potrebbero adattarsi in modo più efficace eludendo le ristrette limitazioni delle cosiddette Cinture Verdi, ovvero quelle regioni dello spazio le cui condizioni favoriscono lo sviluppo della vita di tipo terrestre. D’altronde anche sulla Terra abbiamo esempi eclatanti di quanto estremo possa essere vivere in laghi pregni di arsenico, fosse oceaniche con pressioni eccezionali, vulcani e altre fonti geotermiche, freddi estremi e perfino ambienti radioattivi.

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Perché è meglio non chiedere il “perché” delle cose a un chimico!

Trovata in rete così per caso, non ho potuto resistere dal tradurla per riproporla ai miei lettori. Non so chi sia l’autore e, a quanto mi risulta, credo che in italiano sia ancora inedita, eventualmente sono provvisto di cenere da cospargimento, e sarò pronto ad attribuirne la paternità a chi la rivendichi. Spero proprio che nella traslitterazione dall’idioma di Shakespeare non si perda troppo la componente umoristica, anche se si tratta di humour inglese.

Un dialogo con Alice, anni 5, nel quale si dimostra che se tuo padre è un professore di chimica, chiedere il “perché” con insistenza, potrebbe anche rivelarsi … pericoloso!
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Fermentazioni alternative: lo strano rapporto fra batteri e idrogeno

Rendering strutturale molecolare dell'enzima Fe-Ni Idrogenasi. Imagecredit: Instituto de Tecnologia Química e Biológica

Tra le diverse tecnologie conosciute per la produzione di idrogeno, l’impiego dei batteri e delle biotecnologie applicate, forse rappresenta l’alternativa più promettente per sostituire i combustibili fossili e altri sistemi di accumulo energetico basati sull’energia chimica. Oggi quasi la metà del fabbisogno di idrogeno viene soddisfatto tramite il reforming del gas naturale, il 30% deriva da oli pesanti e nafta, il 18% da carbone, solo il 4% da elettrolisi e infine circa l’1% è prodotto da biomassa. Una situazione che affonda la sua insostenibilità nello scarso rendimento energetico delle tecniche più gettonate, e nella contemporanea produzione di biossido di carbonio, il fatidico e gravoso residuo finale di ogni ossidazione organica.

Con questi presupposti non è difficile indovinare che per liberarsi dalla produzione collaterale di anidride carbonica nello sfruttamento dei vettori energetici come l’idrogeno, bisogna necessariamente modificare il paradigma produttivo, riducendo o addirittura eliminando del tutto le fonti non rinnovabili e incentivando la ricerca in una direzione che permetta di sganciarsi da questo abuso delle risorse naturali e che allo stesso tempo consenta di operare a temperatura ambiente.

La scoperta che alcune alghe verdi producono idrogeno in particolari condizioni risale addirittura al 1939, quando Hans Gaffron si accorse che la Chlamydomonas reinhardtii sospendeva la generazione di ossigeno (tramite la fotosintesi) per emettere idrogeno, ma non fu mai in grado di spiegarne il meccanismo. Solo 60 anni dopo, nel 1999, il professor Anastasios Melis dell’Università di Berkeley in California svelò l’arcano: privando l’alga di zolfo e ossigeno si crea la condizione ideale per sostenere la produzione di idrogeno per un certo periodo. Chiaramente l’interesse per questo tipo di ricerche è sempre stato offuscato dalle priorità in voga nell’ultima metà dello scorso secolo, principalmente di stampo nucleare e petrolifero per intenderci, altrimenti in questo momento ci troveremmo ad utilizzare agevolmente sistemi a impatto zero per i nostri fabbisogni energetici. Qualcuno azzarda che un impegno pari a quello del progetto Manhattan avrebbe risolto da tempo ogni ostacolo tecnico, e che a quest’ora un’economia dell’idrogeno sarebbe stata ampiamente sostenibile comportando un progresso senza pari e in totale rispetto dell’ambiente.

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Benzina dalle formiche!

Un catalizzatore basato sul ferro per la riduzione di bicarbonato a formiato. Imagecredit: WILEY-VCH

Sembra talmente banale, una di quelle idee spiazzanti e sotto gli occhi di tutti, che tuttavia a causa di quell’ottica vigente totalmente stereotipata che nasconde anche l’intuizione più evidente, rimane sempre in secondo piano.

La domanda è semplicissima e non nascondo di essermela posta molte volte anche io: le formiche sono la chiave per il carburante del futuro?

L’acido formico (HCOOH) il più semplice acido organico che deve il suo nome proprio alle formiche, nel cui organismo viene sintetizzato e che lo usano come veleno urticante, rappresenta una delle molecole ideali per immagazzinare l’idrogeno, in maniera efficace e sicura e potrebbe diventare il “serbatoio” energetico rifocillato da energie rinnovabili per alimentare le automobili del XXI secolo, che è già iniziato, non dimentichiamolo, anche se forse non sembrerebbe…

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Idrogeno per tutti dall’acqua funzionale giapponese?

Idrogeno - easy rider

Il primo dubbio che assale chi affronta questi argomenti non è se sia davvero possibile ricavare idrogeno dall’acqua sfondando la grande muraglia chiamata prima legge della termodinamica, ma, nel caso specifico, perché se ne parla così poco e con estrema avarizia nel diffondere i particolari?

La notizia è che lunedì 25 ottobre, una società attiva nella ricerca di nuove soluzioni energetiche giapponese, la FUKAI Environmental Research Institute Inc., ha organizzato una conferenza stampa per la dimostrazione del suo sistema di produzione di idrogeno che dovrebbe avere il più basso costo al mondo per la generazione di 1 kWh: solo 13 centesimi di Euro (0,18 $)!

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Acqua asciutta contro il global warming?

L'acqua in polvere assorbe tre volte tanto!

Direttamente dal meeting della American Chemical Society svoltosi ieri, arriva l’annuncio di uno sviluppo interessante relativo ad una sostanza chiamata dry water, un ossimoro che si può tradurre (più o meno impropriamente) con “acqua secca”, o meglio “acqua asciutta”. Si tratta di un materiale che sembra zucchero in polvere e possiede interessanti peculiarità, ad esempio quella di assorbire grandi quantità di gas, come l’anidride carbonica o il metano.

Fra le sue insolite proprietà figurano, oltre all’elevato adsorbimento gassoso, anche il comodo rilascio successivo del gas catturato, che richiede energie relativamente limitate come una lieve agitazione. L’acqua secca al tatto risulta unta e lascia una sensazione di freddo, proprio come l’alcool, e la sua preparazione non è nemmeno troppo complessa o costosa.

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Varata la fuel cell più grande del mondo!

Il semirimorchio che trasporta la cella

Si tratta della cella a combustibile (fuel cell) più grande del mondo, ed è appena partita alla volta della città di Eastlake, Ohio, per il suo viaggio quinquennale, un intero periodo di test, manco fosse l’Enterprise!

La sua missione è quella di sopperire ai picchi di domanda dell’energia durante i periodi più critici e il suo sarà un lungo viaggio di prova sul campo.

L’imponente cella a combustibile è stata montata all’interno di un semirimorchio di un TIR e contiene abbastanza energia da alimentare ben 500 case. La capacità effettiva della cella è di 1 megawatt e produce esclusivamente vapore acqueo come unica emissione.

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Viola: via libera, UV: stop. Ecco il semaforo che regola il flusso di un gas

Esiste un semaforo per ogni tipo di traffico, ed ora anche il gas ne ha uno tutto suo.

Una nuova membrana sviluppata presso il Laboratorio dell’Università di Rochester, permette il flusso di un gas quando la sua superficie è irradiata da un raggio luminoso di colore viola, mentre ne inibisce il passaggio quando riceve raggi ultravioletti. Questa è la prima volta che gli scienziati hanno sviluppato una membrana controllabile esclusivamente tramite la luce.

Eric Glowacki e Kenneth Marshall sono gli autori di questa ricerca, e proprio oggi presentano i loro risultati alla conferenza annuale presso la International Society for Optics and Photonics (SPIE) di San Diego, California.

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Ecco l’antidoto contro l’avvelenamento del catalizzatore nella fuel cell a idrogeno

Produzione di energia a partire dall'idrogeno: alla fine del ciclo si produce energia ed acqua pura. Imagecredit: Wikimedia Commons

Uno degli inconvenienti più critici delle pile a combustibile alimentate con idrogeno ottenuto dal processo di reforming, consiste nel cosiddetto avvelenamento del catalizzatore, una degradazione irreversibile di quest’ultimo causata dalle impurità di monossido di carbonio. Questa contaminazione gassosa è pressoché inevitabile quando l’idrogeno viene prodotto a partire dal petrolio. Anche se si sfruttasse un ingombrante equipaggiamento per la purificazione, necessario per evitare la presenza di monossido di carbonio, la complessità del sistema aumenterebbe al punto di provocare una parallela riduzione delle prestazioni.

I veicoli alimentati da celle a idrogeno promettono un rifornimento più veloce e una maggiore autonomia rispetto ai diversi metodi di alimentazione delle automobili elettriche, ma l’avvelenamento da monossido di carbonio (CO) rappresenta un serio problema. Almeno fino ad ora. Alcuni scienziati statunitensi e giapponesi sono riusciti a creare nuovi catalizzatori  a nanoparticelle che permettono alle celle a combustibile a idrogeno di resistere anche a concentrazioni di CO finora considerate proibitive.

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Batterie a carica batterica

Esiste un batterio per degradare praticamente ogni tipo di composto organico e la decomposizione produce energia. Questi due principi sono alla base delle ricerche di un gruppo di ricercatori dell’Arizona State University, guidati dal Dr. Prathap Parameswaran nella produzione di energia eco-compatibile.

Il Dr. Prathap Parameswaran e la sua cella a batteri

Già nel 2008 veniva annunciata una speciale cella elettrochimica alimentata da metaboliti batterici (chiamate MFC, MEC o MXC), evidenziandone alcune criticità, come le scarse conoscenze scientifiche nel campo, ma contando sulle enormi potenzialità del procedimento si è giunti ad un importante sviluppo.

Le celle MFC sono in grado di sfruttare la “respirazione” batterica come un mezzo per generare un flusso di elettroni, di fatto producendo una differenza di potenziale che opportunamente applicata a due elettrodi immersi in acqua induce l’elettrolisi generando idrogeno.

Queste celle appaiono come una specie di batteria divisa in due sezioni e i batteri proliferano nella camera del polo positivo (anodo), dove gli elettroni prodotti si coniugano con i protoni presenti al catodo per formare idrogeno gassoso. Secondo Parameswaran, l’esito finale della reazione può variare cambiando alcune condizioni.

Quando i batteri crescono in anaerobiosi (un ambiente privo di ossigeno), aderiscono all’anodo della cella, formando una matrice appiccicosa di zuccheri e  proteine, e se alimentati con composti organici si crea una sorta di collaborazione fra diversi microorganismi nel biofilm anodico, composto da batteri fermentativi, consumatori di idrogeno e un’altra classe di batteri chiamati ARB (anode respiring bacteria). Questa matrice vivente è un buon conduttore, ed è in grado di trasferire efficacemente gli elettroni verso l’anodo, generando così una differenza di potenziale.

Negli ultimi sviluppi di questa ricerca, si è dimostrato che il flusso di elettroni può essere ottimizzato selezionando opportuni ceppi batterici omoacetogenici, che catturano l’idrogeno da materiali di scarto (rifiuti) producendo acetati, i quali sono ottimi donatori di elettroni  per i batteri anodici. Sembra che la collaborazione sintrofica fra i diversi batteri nelle condizioni più favorevoli, aumenti notevolmente la conversione di elettroni per la produzione di idrogeno.

Ulteriori sviluppi in questo campo potrebbero spianare la strada per un eventuale commercializzazione su larga scala di sistemi per il trattamento delle acque reflue e produrre allo stesso tempo energia pulita. “Una delle più grandi limitazioni in questo momento è la nostra mancanza di conoscenza”, afferma Cesar Torres, uno dei co-autori di questo studio, che sottolinea che c’è ancora molto da capire circa le interazioni delle comunità batteriche all’interno delle MXC.

Un percorso promettente che potrebbe rappresentare una semplice soluzione a due grandi problemi del mondo moderno.

Fonte: PhysOrg