Punti di vista neutrali cercasi per valutazione ricerche su OGM, astenersi perditempo!

Dichiarazione di conflitti di interessi: come forse sapete sono abbastanza contrario alla sperimentazione animale indiscriminata, pertanto la mia opinione sugli studi scientifici che si avvalgono di questa pratica è decisamente negativa, sebbene ciò non esclude che vengano utilizzati diffusamente al fine di dimostrare qualunque cosa si desideri. Non sono pagato dalla Monsanto e devo ammettere che non provo grande simpatia per quest’azienda dagli introiti multimiliardari, ma nemmeno per altri protagonisti di questa storia, come l’EFSA o Monsieur Séralini, i quali neppure loro, ahimè, mi pagano per scrivere.

gmo_dees-500x444Facciamo il punto della situazione, l’ondata di criticismo scientifico che si è riversata sui risultati di uno studio francese che ha riscontrato gravi conseguenze sui ratti alimentati con mais geneticamente modificato, non accenna a sfumare, anzi promette di montare come l’albume di un uovo geneticamente inalterato.

Gli autori dello studio pubblicato sul numero di Novembre di Food and Chemical Toxicology, tra cui spicca Gilles-Eric Séralini ricercatore e professore di biologia molecolare, attualmente fronteggiano le pressioni intense da parte di coloro che vorrebbero esaminare la documentazione completa di tutti i dati che hanno portato alla discussa conclusione, ovvero che il gruppo dei ratti foraggiati per due anni con mais resistente al glifosato (un brevetto Monsanto caratterizzato dalla sigla NK603) hanno sviluppato molti più tumori e sono morti in anticipo rispetto al gruppo di controllo. A dirla tutta, dallo studio emerge che i topi manifestano tumori anche quando l’acqua somministrata conteneva una traccia (0,1 parti per miliardo) dell’erbicida incriminato. Proviamo ad approfondire…

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Fantaomeopatie: nanoparticelle, teletrasporto, DNA e memoria dell’acqua

Qualcuno già grida all’assedio, scandalizzati i puristi fedeli alla farmacopea tradizionale si affannano nella resistenza più serrata, inermi di fronte al recente imperversare di strani passaggi pubblicitari ed autorevoli prese di posizione tanto decantate dai media generalisti, accomunati nello strenuo tentativo di insidiarsi subliminalmente nel profondo dei subcoscienti più fragili. Una lotta impari che adesso come non mai deve fare i conti anche con la ricerca scientifica e il suo più agguerrito garante: il processo di peer review.

Ma perché un rimedio alternativo senza alcuna pretesa di plausibilità scientifica, riesce a riscuotere un tale successo, perché viene promosso, prescritto,  assunto con fede incondizionata, rimborsato come un normale farmaco classico, propagandato come una panacea supportata dall’ambiguo motto Similia similibus curantur?? Questo forse è il vero mistero…

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La biochimica velenosa della NASA

Un ingrandimento dei batteri GFAJ-1 coltivati con arsenico. Imagecredit: Wikimedia Commons

Finalmente la NASA ha ammesso di aver raccolto incontestabili prove dell’esistenza di microorganismi alieni terrestri che riescono a metabolizzare anche l’arsenico!
Ecco la notizi(ol)a che avrà deluso intere schiere di esobiologi in erba e non solo. E giù di nuovo a sentenziare inverosimili ipotesi di complotti per occultare le prove e insabbiamenti Roswell-style ad esclusivo impiego di chi frigge la solita aria. Tuttavia la ‘scoperta’ è in ogni caso degna di essere approfondita e va giustamente evidenziata, anche con questi metodi che ne esaltano una certa spettacolarità. In fondo la scienza va divulgata con ogni mezzo possibile, e ben vengano questi metodi che rompono gli schemi usuali del comunicato stampa arido, impersonale e monocorde dedicato ad un pubblico di soli addetti. Ma cosa c’è di veramente nuovo, cosa sfugge allo spettatore medio, cosa si nasconde nelle verità nei dettagli che i media generalisti non ci dicono, o non sanno dirci?

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L’elisir di giovinezza è nascosto nella bile?

La ricerca scientifica per il raggiungimento di un estensione significativa dell’aspettativa di vita, si dirama in numerosi settori, dalle nanotecnologie alla clonazione, passando quindi dalla genetica e arrivando fino all’avveniristico e ultratecnologico upload mentale. Fanno da contorno tecniche cosmetiche avanzate, chirurgia, trattamenti ormonali e nutrigenetica.

Confesso che le ricerche in questo campo attirano sempre la mia attenzione, soprattutto quando viene chiamata in causa, come in questo frangente, una molecola del tutto insospettabile, oltre che poco nota.

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Aging è il primo ad attribuire un ruolo rilevante per un acido biliare, il quale si è dimostrato in grado di estendere la vitalità delle  cellule di lievito usate per i test. I risultati potrebbero avere significative implicazioni per la longevità e la salute umana, dato che il lievito possiede caratteristiche peculiari simili alle nostre.

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Chimica, ultima frontiera

Lab-on-a-chip su vetro. Imagecredit: Wikimedia Commons

Forse qualcuno potrebbe trovare entusiasmanti alcuni  dei nuovi gingilli che circolano nei laboratori più all’avanguardia, dispositivi che hanno qualcosa di miracoloso, reso concreto dall’ingegnosità e dagli sforzi dei ricercatori delle numerose discipline applicate nei prodigiosi lab-on-a-chip. Questi dispositivi, consentono analisi molto complesse, con applicazioni in tutti i campi della chimica analitica e della chimica clinica. Alcuni modelli sono in grado di controllare campioni acquosi, identificando fino a 25 agenti inquinanti in circa mezz’ora, compresa la loro concentrazione, grazie a un biochip che rileva la risposta elettrochimica di anticorpi specifici. Fra le sostanze rilevate, vi si trova anche l’atrazina, uno dei pesticidi più comuni, rintracciabile anche in concentrazioni dell’ordine delle parti per milione (ppm), tuttavia ancora insufficiente per discriminare il campione secondo i limiti di legge.

La potenzialità di questi “ordigni”, si esprime in tutta la loro complessità per  gli utilizzi dedicati alla biochimica, con tecniche immunoenzimatiche, o con traccianti magnetici in luogo dei convenzionali enzimi, radioisotopi o altri mezzi fluorescenti. Anche le tecniche che impiegano la reazione a catena della polimerasi o PCR, una tecnica di biologia molecolare che consente la moltiplicazione di frammenti di acidi nucleici al fine di ottenerne quantità sufficiente per diagnostica clinica, ma anche in medicina legale, in microbiologia o per l’ingegneria genetica.

1000 parametri nel palmo di una mano. Imagecredit: rsc.org

Un “mostro” analitico, come quello nella figura a destra, sviluppato nell’Università di California, a Los Angeles, è addirittura in grado di tracciare oltre 1000 analiti in situ, sfruttando tecniche di estrazione in fase solida (SPE) e spettrometria di massa integrata. Un portento.

In generale la fabbricazione si avvale di una tecnica che ben si adatta alla produzione di massa, la fotolitografia, un processo simile alla stampa che sfrutta i materiali più adatti al caso, dal vetro al metallo, dalla ceramica alla carta, presumo che anche in questo aspetto non ci saranno limiti, e i costi non sono neanche lontanamente paragonabili con i metodi tradizionali.

A fronte di tutte queste ottime qualità\prezzo\prestazioni e chipiùnehapiùnemetta, non bisogna dimenticare però alcuni importanti aspetti fondamentali, che non è proprio possibile trascurare. Intanto è una tecnologia giovanissima, non completamente sviluppata e testata esaustivamente. C’è ancora molto lavoro da fare. Gli effetti fisici come le forze di capillarità o quelli chimici delle superfici dei canali diventano predominanti e portano i sistemi Lab-on-a-chip a comportarsi differentemente e ogni tanto in maniera più complessa delle strumentazioni di laboratorio convenzionali. I principi di rilevazione non sempre sono calibrati per una trasduzione ottimale, portando ad un basso rapporto segnale-rumore che provoca così un elevato errore analitico. Infine anche se l’assoluta accuratezza geometrica e l’elevata precisione nella microfabbricazione  sono facilmente ottenibili, spesso risultano relativamente povere, se confrontate con le attuali tecniche della meccanica di precisione o altre nanotecnologie, per esempio.

Ricordo che quando iniziai a studiare, non troppo tempo fa, per alcune analisi occorrevano ore, chi ha eseguito una gravimetrica per separare il ferro da una matrice acquosa, con filtrazione sottovuoto e amenicoli pratici vari come la calcinazione finale, lo sa. La tecnica era tutto, era necessario mantenere l’attenzione sempre alta per non incorrere in una ripartenza da zero. Già allora insegnavano a lavorare in doppio, a discapito del tempo e a favore del fatto che la media dei due risultati era più precisa di uno solo.

Una ventina di anni fa in un laboratorio tipico lavoravano numerosi tecnici, spesso specializzati in settori distinti e con competenze approfondite frutto di anni di esperienze e osservazioni che arricchivano la professionalità dell’operatore rendendolo un vero esperto.

Oggi, siamo all’estremo opposto. I laboratori odierni pullulano di kit rapidi,  aggeggi polianalitici senza scrupoli e tecnici solitari che devono fronteggiare le competenze più diverse, dall’automazione integrale delle apparecchiature ai requisiti fondamentali dei laboratori di prova pro-certificazione, dalla gestione dei protocolli analitici più recenti alla comprensione delle nuove tecniche che minano economicamente quelle tradizionali, per una futura adozione. Un compito per nulla facilitato dalla produttività che viene richiesta e messa sempre in discussione, come ad esempio nei laboratori conto terzi. La nuova frontiera della chimica analitica non è tutto oro che luccica, le insidie sono molteplici e spesso incomprensibili, e la riduzione del personale nei laboratori è in rapido declino, una tendenza inarrestabile.

Il rischio principale tuttavia, consiste nell’assunto che queste nuove tecnologie presto sostituiranno completamente la figura del chimico, il povero tecnico di laboratorio. Certamente molti credono ciecamente che un microchip ben congegnato potrà dargli qualunque risposta, quasi come un magico tricorder di Star Trek, pur non avendo alcuna competenza, ma è meglio che non dimentichi che nella maggior parte dei casi solo un chimico esperto potrà interpretare obiettivamente e con perizia quegli stessi dati.

Beninteso, non sono contrario a questo tipo di progresso, tuttavia sarebbe meglio accedervi in maniera sostenibile e con una certa base di umiltà, evitando di soppiantare improvvisamente le tecniche acquisite più tradizionali e che hanno ancora molto da dire.

Per chi vuole approfondire: Lab on a chip Journal, STMicroelectronics, CNR

Zucchero? Lo preferisce di barbabietola, di canna o fotosintetico?

Alcuni ricercatori del Wyss Institute for Biologically Inspired Engineering e della Medical School, due dipartimenti dell’Università di Harvard,  hanno bioingegnerizzato un ceppo di batteri fotosintetici rendendoli capaci di produrre zuccheri semplici ed acido lattico. Questa innovazione potrebbe condurre alla progettazione di nuovi metodi ecocompatibili per la produzione di sostanze chimiche di base in grande quantità.

Questa incredibile “fabbrica fotosintetica” potrebbe anche essere in grado di ridurre le emissioni di biossido di carbonio associate al trasporto dello zucchero a livello globale dai paesi produttori, oltre a contribuire alla produzione di plastiche biodegradabili, dove l’acido lattico riveste un ruolo importante, e infine a consentire il sequestro delle emissioni nocive di CO2 dalle centrali elettriche e altri impianti industriali, gas di cui questi batteri sono ghiotti.

In particolare, l’acido lattico viene utilizzato come monomero per la produzione di acido polilattico (PLA), a cui segue l’applicazione come plastica biodegradabile. Questo tipo di plastica è un’ottima alternativa per sostituire la plastica tradizionale prodotta dal petrolio,  oltre alla sua elevata biodegradabilità, anche per le minori emissioni di anidride carbonica della fase produttiva, normalmente espletata tramite un processo di fermentazione.

Oltre al suo positivo e indubbio impatto ambientale quindi, questa tecnologia offre anche discreti vantaggi economici. Infatti, grazie a questo metodo basato interamente sulla fotosintesi, il costo di produzione di zuccheri, acido lattico e altri composti diventerebbe decisamente competitivo rispetto ai metodi tradizionali.

Le attuali ricerche del Dr. Jeffrey Way e del team della dottoressa Pamela Silver, rappresenta solo l’ultima delle innovazioni di un programma ad ampio spettro in cui l’Istituto Wyss, in collaborazione con diversi partner, è impegnato nello sviluppo di metodi ambientalmente sostenibili per la produzione di biocarburanti, di idrogeno, di additivi alimentari e di altri prodotti chimici ad alto valore aggiunto.

Inutile ricordare che i batteri sono degli instancabili lavoratori, non hanno sindacati e non scioperano, non si mettono in mutua, non chiedono un salario, ma soprattutto non ti fanno le scarpe per inseguire la propria carriera! 😀

Fonte: PhysOrg

L’odore della luce

Una capsula di Petri contenente larve di drosophila, con una sezione illuminata da luce blu. Le larve normali evitano le zone esposte alla luce, mentre risulta avere un odore gradevole per le larve OGM che tendono a spostarsi verso quel settore. Fotocredit: PhysOrg

La luce blu potrebbe avere un irresistibile profumo di … banana! Per sentirlo tuttavia, dovresti essere un moscerino della frutta geneticamente modificato.

Alcuni ricercatori tedeschi sono riusciti a modificare il genoma del drosophila in modo che lo stimolo  visivo generato dalla luce blu simuli nella loro percezione uno stimolo olfattivo gradevole, come può essere quello della frutta in decomposizione.

Il team di scienziati di Bochum e Göttingen, sotto la guida del Prof. Klemens Störtkuhl, sperano di svelare gli ultimi segreti delle reti neurali tramite lo studio e la manipolazione di marker genetici e delle cellule dedicate a ricevimento degli stimoli esterni. L’esperimento condotto dimostra che è possibile attivare singolarmente ognuno dei 28 neuroni olfattivi di cui sono dotate le larve degli insetti, inducendo la produzione di una certa proteina qualora un raggio di luce a 480 nm, colpisca i loro recettori visivi. I neuroni attivati quindi inviano un segnale elettrico che simula la percezione di un particolare odore. In poche parole, le larve OGM risultano attratte dalla luce, mentre quelle normali tendono ad evitarla.

Quello che fa riflettere in questo studio, è quanto possano essere strettamente collegate fra loro le diverse percezioni sensoriali, nella loro complessità, anche se con relativa facilità è sufficiente scambiare una singola proteina per sconvolgere le  funzioni primitive.

Chissà se nelle persone affette da sinestesia un certo neurone impazzito ha scambiato le percezioni degli stimoli sensoriali, e se un giorno riusciremo a controllare queste contaminazioni nei nostri sensi?

Fonte: PhisOrg

Fotosintesi ittica

Quanti OGM nell'acquario!

Vedo già alcuni volti inorridire per questa notizia, è vero, ormai l’incredulità è rimasta dietro le nostre spalle, ben poco riesce più a stupire, ma per indignarsi si è sempre disponibili.

Durante una recente conferenza a Boston, inerente argomenti di sintesi biologiche, l’intervento di una biologa scuote la platea con la rivelazione di un nuovo piano di ricerche, in verità già in corso.

Pamela Silver, Professoressa del Dipartimento di Biologia presso l’Harvard Medical School, i cui studi si concentrano sui cianobatteri e sintesi biochimiche, rivela la bizzarra associazione fra le suddette alghe azzurre e un pesce, coniugati forse nel tentativo di accrescere le potenzialità di assimilazione energetica del vertebrato, o chi per esso…

Il pesce zebra (o Danio rerio)

All’atto pratico, un embrione di pesce zebra è stato impiantato con alcune cellule di cyanobacteria fluorescenti. La trasparenza di questi pesci li rende candidati ideali per questo tipo di ricerche, nonostante l’ovvio disappunto delle cavie utilizzate, ma tantè.

Sorprendendo gli stessi ricercatori, la creatura sopravvive e si sviluppa, come anche i batteri fluorescenti, o ciò che ne rimane. Pam ricorda che quando utilizzarono l’E. coli, i pesci esplosero, evidentemente la tolleranza ai cianobatteri è più elevata.

Al momento, il sistema biologico non possiede una resa energetica sufficiente per il sostentamento autonomo del pesce, ma i ricercatori stanno sperimentando diversi approcci di ingegneria genetica per aumentarne l’efficienza.

Il video che segue mostra un embrione del pesce zebra (in verde) inoculato con i cianobatteri fluorescenti fotosintetici (in rosso).

La possibilità che un giorno anche gli organismi eucarioti, con differenziazione cellulare, eterotrofi e mobili durante almeno uno stadio della loro vita, fra cui si annovera anche l’uomo, possano godere di peculiarità fotosintetiche, fa riflettere sul fatto che potremo diventare artefici della nostra stessa evoluzione.
Più inquietante o affascinante?

I geni di Matusalemme

Henry Allingham, 111 anni nel 2007.

Una recente ricerca effettuata su 3.500 novantenni olandesi, condotta dal team di Eline Slagboom dell’Università di Leiden, svela una caratteristica genetica che consentirebbe il raggiungimento di un’età veneranda anche in soggetti che non siano proprio dei salutisti sfegatati. Il segreto consiste in un particolare assortimento di geni che proteggono l’individuo dagli effetti del fumo, da diete poco moderate e stili di vita sconsiderati, intervenendo addirittura nell’inibizione di alcune patologie tipiche dell’età avanzata, come il cancro e disturbi cardiaci.

La “suite” di geni che consentirebbe queste virtù, tuttavia, è una combinazione molto rara, solo una persona su 10.000 raggiunge il secolo di vita, e fra questi si è riscontrata un’elevata probabilità di possedere questo cocktail cromosomico, evidenziando che la longevità è strettamente correlata alla genetica ed all’ereditarietà.

I soggetti esaminati sono dotati di un metabolismo in grado di assimilare grassi e zuccheri in maniera differente dalla norma, la loro pelle invecchia più lentamente e risultano meno colpiti da diabete, ipertensione e altri disturbi della circolazione.

Si ritiene che i “geni di Matusalemme“, così chiamati dal patriarca biblico che visse 969 anni, influenzino la produzione di un ormone, l’adiponectina, che è presente nel 10% dei giovani, ma arriva al 30% nel sangue dei centenari, e di altre proteine plasmatiche come il CETP (Cholesteryl ester transfer protein) e l’ApoC3 (Apolipoprotein C-III), tutte strettamente implicate nei processi metabolici.

Alcuni dei geni coinvolti nella produzione di queste proteine, sono stati scoperti dal Prof Nir Barzilai dell’Albert Einstein College of Medicine di New York, in uno studio precedente su circa 500 centenari e loro discendenti.

Rendering della proteina CETP

Il dottor Barzilai durante una conferenza della Royal Society, ha affermato che la scoperta di tali geni indica agli scienziati obiettivi chiari per lo sviluppo di farmaci che potrebbero impedire o ritardare l’insorgenza delle malattie legate all’età, allungando potenzialmente la vita delle persone preservandole in salute più a lungo.

Il dottor David Gems, un ricercatore sulla longevità all’University College di Londra, ritiene che i trattamenti per rallentare l’invecchiamento presto verranno diffusi.  Farmaci mirati per persone oltre i cinquanta anni, potrebbero ridurre enormemente le sofferenze causate dall’invecchiamento, diventando i futuri blockbuster dell’industria farmaceutica. Naturalmente anche le anomalie genetiche come l’invecchiamento precoce o la sindrome X di cui è affetta la diciassettenne americana Brooke Greenberg, che a causa di questo disordine genetico vive in un corpo che non vuole crescere (ha l’aspetto e l’età mentale di una bimba di pochi mesi), potrebbero avere qualche chance terapeutica.

La speranza è che gli interessi economici e le speculazioni delle industrie farmaceutiche non pregiudichino l’avanzare e la diffusione di queste ricerche.

Fonte: Timesonline