Carpe Carbo Diem (La guerra impossibile contro il carbonio)

Dum loquimur fugerit invida

aetas: carpe [carbo] diem, quam minimum credula postero

(Mentre parliamo il tempo sarà già fuggito, come se ci odiasse.

cogli l’attimo [e il carbonio], confidando il meno possibile nel domani)

In tutto il mondo durante il 2011 sono state prodotte almeno 35 miliardi di tonnellate di biossido di carbonio, questo significa che ogni giorno dell’anno circa cento milioni di tonnellate di CO2 arricchiscono l’atmosfera di uno dei principali gas responsabili dell’effetto serra. Una produzione che diventa sempre più preoccupante e genera allarme per gli effetti a lungo termine che potrebbe generare. Urge quindi una ricerca rivolta alla risoluzione di questo impellente problema, con tutti i mezzi a disposizione, ma soprattutto che assicuri la sua sostenibilità evitando di intraprendere percorsi che comportino rischi che potrebbero rivelarsi peggiori della situazione attuale.

Una ricerca che non è affatto semplificata dall’incessante dibattito più che altro politico (e patetico, il più delle volte) o ideologico che contamina la scienza con reazioni sicuramente controproducenti. Il problema però sembra essere molto più complesso di quanto inizialmente delineato, e i rimedi proposti finora si perdono spesso nel bilanciamento poco equilibrato tra i pro e i contro.

Proviamo ad approfondire con qualche riflessione, evitando di scadere nelle annose diatribe come la causalità tra concentrazione atmosferica di CO2 e aumento delle temperature e soprattutto nel poco noto paradosso verde, il quale è di natura prettamente economica esulando pertanto dai nostri scopi.

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Freeman Dyson e Steve Connor, epistole impertinenti sui cambiamenti climatici

Steve Connor e Freeman Dyson. Imagecredit: The Independent

Il professor Freeman Dyson, classe 1923, è un illustre fisico teorico e matematico statunitense di origine britannica, famoso per i suoi studi sulla teoria quantistica dei campi, sulla fisica dello stato solido, e molto altro ancora. I suoi amici lo descrivono come una persona timida e schiva, con una vena di contrappunto che i suoi amici trovano rinfrescante, ma che i suoi oppositori subiscono con esasperazione. Il suo amico, il neurologo e scrittore Oliver Sacks, ha detto che “la parola preferita da Freeman sul fare scienza ed essere creativi, è il termine ‘sovversivo‘. Egli non pensa solo che sia piuttosto importante non cadere nell’ortodossia, ma bisogna anche essere sovversivi, ed è proprio ciò che ha fatto per tutta la vita”. [1]

Su Steve Connor, ahimè, non sono riuscito a trovare molte informazioni, è attualmente science editor del noto tabloid britannico The Independent e qui potete trovare una panoramica del suo operato.  Ben Goldacre, editorialista della rubrica scientifica Bad Science, ospitata dal quotidiano The Guardian, scrive di lui sul suo blog, definendolo un uomo “arrabbiato” e associandolo addirittura agli omeopati quando si tratta di rabbia. Riconosco che questa presentazione possa risultare palesemente sbilanciata, tuttavia trovo più interessante riflettere sui contenuti dello scambio di e-mail in cui Steve Connor chiede allo scienziato ribelle perché egli sia uno dei pochi veri intellettuali ad essere così sprezzante sul diffuso consenso per il riscaldamento globale e la sua origine antropica.

Quanto segue è la traduzione, un po’ frettolosa in verità, dell’interessante botta e risposta tra i due, incentrata sullo scetticismo di Dyson nei confronti del Global Warming. [2]

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Un brindisi scientifico per l’anno internazionale della chimica!

Grape-Shot: 1915 English magazine illustration...

Image via Wikipedia

La notte di San Silvestro è appena sfumata, scandita da rimbombanti percussioni di natura pirotecnica ed enologica, in un susseguirsi di fulminee manifestazioni entropiche di materia ed energia tra formidabili pressioni gassose e ossidoriduzioni implacabili, in grado di far schizzare per metri un leggero agglomerato di sughero ormai libero dalla morsa della gabbia metallica che lo tratteneva saldamente sulla bottiglia, oppure capaci di proiettare nella profonda troposfera un artefatto alchemico portatore di un tripudio variegato con quelle fantastiche esplosioni di colori impazziti che però fanno impazzire anche gli ignari quattrozampe spaventati.

Non essendo un grande estimatore dei fuochi d’artificio, ho approfondito un aspetto forse meno effimero che di solito caratterizza le nostre feste, e che potrebbe rimanere valido e utile per tutto l’anno e anche oltre!

Quanta chimica si cela dietro quel bicchiere di prezioso liquido variabilmente paglierino e ospite immancabile sulle tavole dei festeggiamenti di tutto il mondo? Il Professor Klaus Roth dell’Institut für Chemie und Biochemie di Berlino ha esaminato a fondo la questione, e non riesco ad evitare di riportare alcune delle sue più interessanti osservazioni.

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Benzina dalle formiche!

Un catalizzatore basato sul ferro per la riduzione di bicarbonato a formiato. Imagecredit: WILEY-VCH

Sembra talmente banale, una di quelle idee spiazzanti e sotto gli occhi di tutti, che tuttavia a causa di quell’ottica vigente totalmente stereotipata che nasconde anche l’intuizione più evidente, rimane sempre in secondo piano.

La domanda è semplicissima e non nascondo di essermela posta molte volte anche io: le formiche sono la chiave per il carburante del futuro?

L’acido formico (HCOOH) il più semplice acido organico che deve il suo nome proprio alle formiche, nel cui organismo viene sintetizzato e che lo usano come veleno urticante, rappresenta una delle molecole ideali per immagazzinare l’idrogeno, in maniera efficace e sicura e potrebbe diventare il “serbatoio” energetico rifocillato da energie rinnovabili per alimentare le automobili del XXI secolo, che è già iniziato, non dimentichiamolo, anche se forse non sembrerebbe…

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La chimica dei Guinness

Se ne parla poco, ma anche la chimica può vantare i suoi curiosi primati, sfide estreme spesso goliardiche e bizzarre, che però assolvono pienamente all’implicita dichiarazione d’intenti: sfatare il luogo comune che la scienza è noiosa ed è riservata a quei pochi nerd occhialuti, mentre si può stupire e intrattenere comunicando la scienza in maniera divertente e interessante, senza per questo rinunciare ad una proficua divulgazione di temi scientifici.

Per questo motivo, l’esempio più eclatante potrebbe essere la più grande lezione di chimica mai realizzata, ufficializzata davvero dai Guinness World Records che hanno confermato l’evento come un primato mondiale, svoltosi durante la giornata della scienza del 2009 (Science Day 2009), ma c’è molto, molto di più…

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Alla faccia del bicarbonato di sodio, che alghe!

Alghe si nasce, ma formidabili produttori di biocombustibili si diventa!

Già, perché, quasi come una novella scoperta dell’acqua calda, alcuni ricercatori hanno dimostrato che un reagente “povero” come il bicarbonato di sodio è in grado di aumentare notevolmente la produzione da parte delle alghe dei precursori chiave del biodiesel, un combustibile ottenuto da fonti rinnovabili.

Una notizia che alle sette sorelle non farà certo piacere di questi tempi, che tra le incombenze di Hubbert, le mestruazioni del golfo messicano e l’instabilità dei mercati, adesso vedono schierarsi un altro agguerrito e temibile concorrente nelle file dei combustibili alternativi.

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Acqua asciutta contro il global warming?

L'acqua in polvere assorbe tre volte tanto!

Direttamente dal meeting della American Chemical Society svoltosi ieri, arriva l’annuncio di uno sviluppo interessante relativo ad una sostanza chiamata dry water, un ossimoro che si può tradurre (più o meno impropriamente) con “acqua secca”, o meglio “acqua asciutta”. Si tratta di un materiale che sembra zucchero in polvere e possiede interessanti peculiarità, ad esempio quella di assorbire grandi quantità di gas, come l’anidride carbonica o il metano.

Fra le sue insolite proprietà figurano, oltre all’elevato adsorbimento gassoso, anche il comodo rilascio successivo del gas catturato, che richiede energie relativamente limitate come una lieve agitazione. L’acqua secca al tatto risulta unta e lascia una sensazione di freddo, proprio come l’alcool, e la sua preparazione non è nemmeno troppo complessa o costosa.

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The plankton paradox (il paradosso del plancton)

Diatomee marine osservate al microscopio. Imagecredit: Wikimedia Commons

Sembra il titolo di un episodio della divertentissima serie televisiva Big Bang Theory, ma il paradosso del plancton in oceanologia descrive la paradossale situazione in cui una serie limitata di risorse (luce e sostanze nutrienti) provoca lo sviluppo di una gamma molto più ampia di microorganismi acquatici.

Il paradosso è in palese contraddizione con il principio di esclusione competitiva (o principio di Gause), che afferma che se due specie coesistono in un medesimo ambiente, ciò avviene in ragione del fatto che esse presentano nicchie ecologiche separate. Qualora, però, le due specie presentino nicchie sovrapposte, allorà una delle due specie prenderà il sopravvento sull’altra fino ad eliminarla. La grande biodiversità del fitoplancton per tutti i livelli filogenetici invece è in contrasto con la gamma limitata di risorse per cui sono in concorrenza una con l’altra (come ad esempio nitrati, fosfati, acido silicico, ferro).

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Zucchero? Lo preferisce di barbabietola, di canna o fotosintetico?

Alcuni ricercatori del Wyss Institute for Biologically Inspired Engineering e della Medical School, due dipartimenti dell’Università di Harvard,  hanno bioingegnerizzato un ceppo di batteri fotosintetici rendendoli capaci di produrre zuccheri semplici ed acido lattico. Questa innovazione potrebbe condurre alla progettazione di nuovi metodi ecocompatibili per la produzione di sostanze chimiche di base in grande quantità.

Questa incredibile “fabbrica fotosintetica” potrebbe anche essere in grado di ridurre le emissioni di biossido di carbonio associate al trasporto dello zucchero a livello globale dai paesi produttori, oltre a contribuire alla produzione di plastiche biodegradabili, dove l’acido lattico riveste un ruolo importante, e infine a consentire il sequestro delle emissioni nocive di CO2 dalle centrali elettriche e altri impianti industriali, gas di cui questi batteri sono ghiotti.

In particolare, l’acido lattico viene utilizzato come monomero per la produzione di acido polilattico (PLA), a cui segue l’applicazione come plastica biodegradabile. Questo tipo di plastica è un’ottima alternativa per sostituire la plastica tradizionale prodotta dal petrolio,  oltre alla sua elevata biodegradabilità, anche per le minori emissioni di anidride carbonica della fase produttiva, normalmente espletata tramite un processo di fermentazione.

Oltre al suo positivo e indubbio impatto ambientale quindi, questa tecnologia offre anche discreti vantaggi economici. Infatti, grazie a questo metodo basato interamente sulla fotosintesi, il costo di produzione di zuccheri, acido lattico e altri composti diventerebbe decisamente competitivo rispetto ai metodi tradizionali.

Le attuali ricerche del Dr. Jeffrey Way e del team della dottoressa Pamela Silver, rappresenta solo l’ultima delle innovazioni di un programma ad ampio spettro in cui l’Istituto Wyss, in collaborazione con diversi partner, è impegnato nello sviluppo di metodi ambientalmente sostenibili per la produzione di biocarburanti, di idrogeno, di additivi alimentari e di altri prodotti chimici ad alto valore aggiunto.

Inutile ricordare che i batteri sono degli instancabili lavoratori, non hanno sindacati e non scioperano, non si mettono in mutua, non chiedono un salario, ma soprattutto non ti fanno le scarpe per inseguire la propria carriera! 😀

Fonte: PhysOrg

Il nucleare non è la risposta al Global Warming!

Oggi ho una sola certezza: il dibattito sul Global Warming è strettamente correlato con la stagionalità. Quando la tarda primavera e l’imminente estate iniziano a diffondere i primi caldi, il timido mormorio dei mesi freddi diventa improvvisamente un martello pneumatico da 100 decibel, ingloriosamente amplificato dalle vampate di calore, come una cassa di risonanza globale.

Per il resto, nel mio modesto scetticismo, cerco di barcamenarmi come meglio posso nell’oceano di informazioni che un non addetto ai lavori può trovare in rete, per cercare di dare una risposta ai miei dubbi, spesso invano. Sarà che ormai la diffidenza è sovrana, a mo’ di anticorpo contro la pandemia di bufale e disinformazione che affligge gli argomenti più controversi, ma orientarsi in questo frangente non è affatto facile, e lo è ancor meno schierarsi con sicurezza.

A meno che …

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Geoingegneria: le soluzioni pericolose contro il global warming

Un'immagine artistica dell'imbarcazione che genera le nuvole

Il nostro pianeta ha la febbre? Perché non rimediare spegnendo il sole? A mali estremi il rimedio potrebbe però essere peggiore del male, soprattutto quando si tratta di verificare ipotesi che per ora sono solo schizzi abbozzati sulla carta, e lasciano numerosi interrogativi insoluti.

Tra le proposte più accreditate (da chi?), vi è quella di creare nuvole bianche artificiali al di sopra degli oceani, in modo da riflettere gran parte della luce solare e intervenendo direttamente su una delle fonti del surriscaldamento globale, l’effetto delle radiazioni solari.

La geoingegneria, ovvero l’applicazione delle pratiche ingegneristiche alle scienze geologiche, prevede che iniettando acqua salmastra nebulizzata nell’atmosfera, favorisca la formazione di nuvole, ed è una proposta venuta già alla ribalta una decina di anni fa, e prontamente liquidata come una bizzarra fantasia. Adesso ci risiamo, complice il fallimento del controllo delle emissioni a breve termine.

Alcuni scienziati tuttavia ci mettono in guardia, sostenendo che questo sistema potrebbe interferire con il naturale processo di formazione delle nuvole, soprattutto nelle zone costiere a causa della presenza di numerose particelle inquinanti, e l’effetto risultante potrebbe essere completamente inefficace o addirittura produrre l’effetto contrario, un inutile e costoso dispendio di risorse.

Secondo i modelli calcolati dal Professor Ken Carslaw della Università di Leeds, sarebbe necessaria la creazione di uno strato perfettamente uniforme di questo aerosol salino che andrebbe prodotto su larga scala. In alcuni punti, le particelle di spray artificiale potrebbero ostacolare la naturale  formazione delle gocce, ottenendo l’effetto  opposto a quello previsto. In pratica, generare una copertura uniforme di nubi riflettenti con superfici  maggiori a quelle degli oceani  terrestri sarebbe estremamente impegnativo, e i risultati non sono affatto garantiti.

Un’altra idea è quella di emettere particelle sulfuree nell’alta atmosfera per riflettere   la luce solare verso lo spazio, una specie di vulcano artificiale. Si tratterebbe di simulare quello che accade in un eruzione vulcanica, quando le particelle di aerosol emesse  filtrano la luce del sole e   causano un limitato raffreddamento globale. I solfati si disperderebbero entro un paio   di anni, ma ancora una volta questa “soluzione” non prevede l’alterazione dell’acidità degli oceani,  e poco si sa sugli effetti  potenziali dell’acidità degli aerosol a base di solfati.

L’idea di creare una superficie riflettente enorme tra la terra e il sole con giganteschi specchi spaziali,  che potrebbero  essere modificati per interferire con la radiazione solare in arrivo, è stata anche presa in considerazione. Oltre alle immense difficoltà tecniche, le implicazioni politiche di chi controllerà questa tecnologia, suscitano problematici e inquietanti interrogativi.

In alternativa si è pensato di emulare gli alberi convertendo l’anidride carbonica in sostanze solide contenenti carbonio, e attualmente  viene ritenuta la miglior freccia nell’arco dei propositori. Tuttavia ancora nessuno è stato in grado di farlo in maniera più efficace dei vegetali, e la domanda viene spontanea: perché non si piantano semplicemente più foreste, lasciando la fantascienza a intrattenerci nei cinema?

Fonte: Indipendent

I batteri del metano di Marte

Distribuzione del metano nell'atmosfera di Marte durante il periodo "estivo" nel suo emisfero settentrionale

Sembra che ulteriori indizi favoriscano le ipotesi recenti della presenza di una fervida vita microscopica nelle ridenti valli marziane, alimentata dagli squilibri produttivi del metano, che pongono ancora interessanti interrogativi.

Marte possiede un’atmosfera estremamente rarefatta, composta per oltre il 95% da CO2, il resto comprende azoto  (2,7%), argo (1,6%) e tracce importanti di ossigeno, CO, vapore acqueo, NO, ozono e altri gas nobili. Dagli ultimi rilievi del 2004 effettuati dalla sonda europea Mars Express, è stata confermata anche la presenza di metano (CH4) in quantità non trascurabili che si aggirano intorno alle 10 parti per miliardo (10,5 ppb). Per confronto, nell’atmosfera della Terra di metano  ne misuriamo più di 100 volte tanto  (1790 ppb).

L’aspetto intrigante risiede nel fatto che il metano, essendo un gas instabile a causa della sua elevata reattività, implica la presenza di una fonte attiva per esistere, e anche la sua degradazione fotochimica, secondo i modelli teorici, non giustifica questa presenza. Non è giustificabile nemmeno a causa dell’assenza di attività vulcanica e idrotermale sulla superficie.

Il metano su Marte viene prodotto da estese sorgenti, ed i profili implicano che viene rilasciato almeno da tre distinte regioni. In piena estate boreale, la fonte principale emette 19.000 tonnellate di metano in media, con un flusso di 0,6 kg al secondo. A questo ritmo si stima che il pianeta rosso debba produrre circa 270 tonnellate di metano all’anno.

Sebbene la presenza di questo gas potrebbe essere ascrivibile ad un’origine minerale, come sottoprodotto della reazione fra acqua, anidride carbonica e l’olivina, un minerale siliceo presente in quantità sulla superficie di Marte, per confermarlo bisognerebbe determinare la presenza della serpentinite, il prodotto solido della reazione citata. Esiste inoltre la remota possibilità che il metano si formi dalla decomposizione di giacimenti di clatrati idrati, una specie di ‘soluzione’ solida tra metano (e altri gas) e acqua.

L’ipotesi più affascinante però, si avvale della  scoperta che la presenza di metano è sempre associata a quella di vapore acqueo, soprattutto in alcune regioni equatoriali. Il planetologo H. Grinspoon (Southwest Research Institute) pensa che questa coincidenza aumenti le probabilità di un origine biologica.

Lost Hammer Spring presso l'isola Axel Heiberg, territorio di Nunavut, Canada. (Credit: Dept. Natural Resource Sciences, McGill University, Montreal.)

 

Un’ulteriore conferma di queste teorie biogeniche sembra che arrivi proprio in questi giorni, proveniente nientemeno che dai ricercatori del dipartimento delle risorse naturale della McGill University, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche del Canada, dall’Università di Toronto e dal SETI Institute, i quali hanno scoperto la presenza di alcuni batteri metanotrofi (il cui metabolismo consiste in un ciclo ‘alimentare’ a base di metano, contrapposti ai batteri metanogeni), nell’ambiente estremo di un isola a nord del Canada, Axel Heiberg Island.

Il dottor Lyle Whyte, un microbiologo dell’Università di McGill, spiega che la sorgente di Lost Hammer può sostenere la vita batterica in un ambiente anaerobico, e che è molto simile a sorgenti presenti con tutta probabilità anche su Marte, suggerendone una popolazione microbica analoga.

“Il punto della ricerca è che non importa da dove il metano provenga” spiega Whyte. Se in una situazione in cui si dispone di acqua salata molto fredda (anche fino a -50°C!), prolifera una comunità microbica, anche in ambienti senza ossigeno, è lecito ipotizzare lo stesso anche su altri pianeti con condizioni ambientali simili.

Un quesito che rimarrà insoluto ancora per un po’, almeno fino a quando il Mars Science Laboratory (MSL), chiamato anche Curiosity, un rover della NASA che verrà lanciato nell’autunno del 2011 ed effettuerà un atterraggio di precisione su Marte nei primi mesi del 2012, misurerà con il metodo del C14 il metano presente, determinandone l’origine, biologica o meno.

La NASA inoltre ha rivelato l’ambizioso obiettivo di lanciare la missione Mars Orbiter Trace Gas nel 2016, per studiare ulteriormente il metano,  nonché i suoi prodotti di decomposizione, come la formaldeide e metanolo.

Con la speranza che un giorno si riesca a colonizzare anche le sterminate sorgenti marziane, sfruttando impietosamente la popolazione autoctona di batteri indigeni come novelli e futuri microscopici schiavi … Mi auguro che non abbiano una coscienza collettiva proto-comunista da sedare!!!

 

Fonte: ScienceDaily

Cow Power! Energia bovina

Quante mucche occorrono per fornire l’energia necessaria per alimentare un piccolo appartamento?

Cats love squirting!

Secondo la GHD Inc., una società del Wisconsin leader in ingegneria ambientale, basterebbero quattro mucche da latte per ottenere un chilowatt di energia elettrica.

Quattro bovini adulti producono giornalmente circa 250 litri di letame purissimo e naturale,  che trattato in appositi digestori anaerobici in cui  vi sono gli stessi batteri  ospitati dall’intestino del ruminante, assicura una costante e duratura produzione di metano.

Il gas viene così raccolto e bruciato in loco, producendo elettricità a buon mercato che può anche essere reimmessa in rete o venduta alle compagnie elettriche.

Per essere sostenibile economicamente, l’operazione necessita di circa 600 mucche, ma una produzione intensiva può arrivare a impiegare fino a 10.000 vacche.

Chissà se il bilancio finale tra la CO2 emessa e il CH4 sottratto alle fila dei gas serra, possa in qualche modo influenzare in positivo quel fastidioso effetto greenhouse? In fondo a me l’odore delle fattorie (e dei suoi abitanti) non ha mai dato particolarmente fastidio, anzi lo preferisco sicuramente a certi  immondi e per niente naturali olezzi moderni!

Fonte: PhysOrg

Ecco l’automobile vegetale!

Sarebbe una meravigliosa rivoluzione che cambierebbe per sempre tutte le logiche relative alle lotte contro l’inquinamento e le supremazie delle lobby energetiche. Per questo forse non vedremo mai realizzarsi il sogno utopistico di qualsiasi ambientalista: un’automobile che trae l’energia consumando anidride carbonica e tramite una fotosintesi tecnologica emette ossigeno come una vera pianta.

Si chiama YeZ, una concept car biposto che è stata presentata recentemente allo Shanghai Expo 2010 dalla Shanghai Automotive Industry Corporation (SAIC), in collaborazione con General Motors e Volkswagen.

La YeZ (si pronuncia yea-zi e significa “foglia” in mandarino), ricava la sua energia grazie a pannelli solari di ultima generazione che ricoprono il tettuccio, oltre a convertire i flussi di aria in movimento tramite mini-turbine eoliche istallate sulle ruote. A queste due fonti inoltre si aggiunge l’adsorbimento e la conversione della CO2 atmosferica che viene processata attraverso il materiale che compone la sua carrozzeria, avente una struttura molecolare organometallica.

Attraverso il mix di tecnologie di cui è dotata, l’energia prodotta viene accumulata in speciali batterie a ioni di litio, e dosata in base alle necessità. Secondo il costruttore, la YeZ sarà operativa anche con il cielo coperto e vanterà l’ambito traguardo di rendere obsoleta l’attuale classificazione delle automobili in base alle emissioni, posizionandosi nella parte negativa della scala, ovvero inferiore allo zero!

Purtroppo, a quanto si dice, questo sogno impiegherà almeno 20 anni prima di realizzarsi.

Fonte: cnet.news

18.000 anni fa un enorme “rutto” di CO2 terminò l’era glaciale

Alcuni ricercatori hanno scoperto la possibile fonte di un enorme bolla di anidride carbonica che circa 18.000 anni fa contribuì a terminare l’era glaciale.

I loro risultati forniscono la prima prova concreta che la CO2 intrappolata nelle profondità oceaniche aveva creato un efficace serbatoio pronto a rilasciare il gas in caso di bisogno. Come è noto, la solubilità dell’anidride carbonica è inversamente proporzionale alla temperatura, cioè al crescere di quest’ultima corrisponde una diminuzione della CO2 disciolta che si libera nell’atmosfera.

Ora non scendo nei dettagli inerenti il percorso deduttivo che dall’analisi del carbonio-14 dei foraminiferi sepolti nei fondali sedimentari oceanici raccolti tra l’Antartide ed il Sud Africa ha portato a stabilire un evidenza del gigantesco “burp”, ma ci tenevo a segnalare che questa ricerca porta nuova linfa alle proposte di iniettare l’anidride carbonica direttamente nelle profondità marine come rimedio al global warming incipiente.

Qualcosa mi dice che devo correre  a rileggere le dinamiche di causa ed effetto…

Fonte: Phisorg.com