Fermentazioni alternative: lo strano rapporto fra batteri e idrogeno

Rendering strutturale molecolare dell'enzima Fe-Ni Idrogenasi. Imagecredit: Instituto de Tecnologia Química e Biológica

Tra le diverse tecnologie conosciute per la produzione di idrogeno, l’impiego dei batteri e delle biotecnologie applicate, forse rappresenta l’alternativa più promettente per sostituire i combustibili fossili e altri sistemi di accumulo energetico basati sull’energia chimica. Oggi quasi la metà del fabbisogno di idrogeno viene soddisfatto tramite il reforming del gas naturale, il 30% deriva da oli pesanti e nafta, il 18% da carbone, solo il 4% da elettrolisi e infine circa l’1% è prodotto da biomassa. Una situazione che affonda la sua insostenibilità nello scarso rendimento energetico delle tecniche più gettonate, e nella contemporanea produzione di biossido di carbonio, il fatidico e gravoso residuo finale di ogni ossidazione organica.

Con questi presupposti non è difficile indovinare che per liberarsi dalla produzione collaterale di anidride carbonica nello sfruttamento dei vettori energetici come l’idrogeno, bisogna necessariamente modificare il paradigma produttivo, riducendo o addirittura eliminando del tutto le fonti non rinnovabili e incentivando la ricerca in una direzione che permetta di sganciarsi da questo abuso delle risorse naturali e che allo stesso tempo consenta di operare a temperatura ambiente.

La scoperta che alcune alghe verdi producono idrogeno in particolari condizioni risale addirittura al 1939, quando Hans Gaffron si accorse che la Chlamydomonas reinhardtii sospendeva la generazione di ossigeno (tramite la fotosintesi) per emettere idrogeno, ma non fu mai in grado di spiegarne il meccanismo. Solo 60 anni dopo, nel 1999, il professor Anastasios Melis dell’Università di Berkeley in California svelò l’arcano: privando l’alga di zolfo e ossigeno si crea la condizione ideale per sostenere la produzione di idrogeno per un certo periodo. Chiaramente l’interesse per questo tipo di ricerche è sempre stato offuscato dalle priorità in voga nell’ultima metà dello scorso secolo, principalmente di stampo nucleare e petrolifero per intenderci, altrimenti in questo momento ci troveremmo ad utilizzare agevolmente sistemi a impatto zero per i nostri fabbisogni energetici. Qualcuno azzarda che un impegno pari a quello del progetto Manhattan avrebbe risolto da tempo ogni ostacolo tecnico, e che a quest’ora un’economia dell’idrogeno sarebbe stata ampiamente sostenibile comportando un progresso senza pari e in totale rispetto dell’ambiente.

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La biochimica velenosa della NASA

Un ingrandimento dei batteri GFAJ-1 coltivati con arsenico. Imagecredit: Wikimedia Commons

Finalmente la NASA ha ammesso di aver raccolto incontestabili prove dell’esistenza di microorganismi alieni terrestri che riescono a metabolizzare anche l’arsenico!
Ecco la notizi(ol)a che avrà deluso intere schiere di esobiologi in erba e non solo. E giù di nuovo a sentenziare inverosimili ipotesi di complotti per occultare le prove e insabbiamenti Roswell-style ad esclusivo impiego di chi frigge la solita aria. Tuttavia la ‘scoperta’ è in ogni caso degna di essere approfondita e va giustamente evidenziata, anche con questi metodi che ne esaltano una certa spettacolarità. In fondo la scienza va divulgata con ogni mezzo possibile, e ben vengano questi metodi che rompono gli schemi usuali del comunicato stampa arido, impersonale e monocorde dedicato ad un pubblico di soli addetti. Ma cosa c’è di veramente nuovo, cosa sfugge allo spettatore medio, cosa si nasconde nelle verità nei dettagli che i media generalisti non ci dicono, o non sanno dirci?

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Rivoluzioni dentistiche: ecco lo spazzolino solare senza dentifricio!

Scordatevi il dentifricio, la nuova igiene orale adesso è tutta solare!

Il professore emerito in odontoiatria dottor Kunio Komiyama e il suo collega Dr. Gerry Uswak dell’Università di Saskatchewan in Canada sono alla ricerca di 120 ragazzi volontari disposti a spazzolarsi i denti con un prototipo di spazzolino alimentato solo da un piccolo pannello solare come quello di una calcolatrice, e a sottoporsi a qualche controllo extra sulla fatidica poltrona.

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Un aspetto della fotosintesi che ancora non conoscevamo

I cloroplasti, organuli cellulari che contengono la clorofilla. Imagecredit: Wikimedia Commons

Clorofilla: una molecola straordinaria e complessa che è stata progettata dalla natura per consentire alla vita vegetale di svolgere quella sbalorditiva trasformazione fisica che è la fotosintesi.

Non ha nulla a che fare con il cloro, con cui tuttavia ne condivide parte dell’etimologia χλωρός (chloros “verde”) e φύλλον (phyllon “foglia”), infatti entrambi assumono una colorazione verde, ma mentre quella dell’alogeno è decisamente venefica e lascia un senso di sterilità, la clorofilla è sinonimo di vita e di prosperità.

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Flatulenze batteriche miracolose!

Il complesso molecolare della nitrogenasi. Imagecredit: Wikimedia Commons

Potrebbe essere una scoperta rivoluzionaria: un enzima che normalmente converte l’azoto gassoso in ammoniaca, un processo noto come azotofissazione, è anche in grado di ridurre il monossido di carbonio per produrre idrocarburi semplici come il propano, impiegabili come combustibile.

A questa conclusione sono giunti Chi Chung Lee, Yilin Hu e Markus Ribbe, della University of California, i quali stanno indagando sulla enzima vanadio-nitrogenasi – il cugino meno noto della   molibdeno-nitrogenasi.

Il team per la prima volta  è riuscito a isolare una quantità sufficiente di vanadio- nitrogenasi pura per effettuare alcuni test. Uno di questi implicava l’esposizione dell’enzima al monossido di carbonio, (CO) che rappresenta un potente inibitore nella fissazione dell’azoto della versione contenente molibdeno dell’enzima.

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Quelle pinzette olografiche che sembrano un raggio traente

L'orientamento di una cellula manipolata dal laser. Imagecredit: Wikimedia Commons

Esiste un nuovo strumento a disposizione della scienza che si avvale della tecnologia olografica per manipolare oggetti microscopici troppo fragili e delicati per essere ruotati, spostati oppure orientati  opportunamente senza danneggiarli irrimediabilmente. L’ultima evoluzione di questa tecnologia è stata sviluppata all’Università di Tel Aviv dalla dottoressa Yael Roichman, ed è in grado di manipolare contemporaneamente fino a 300 nanoparticelle alla volta, come ad es. polimeri o microsfere vetrose.

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Zucchero? Lo preferisce di barbabietola, di canna o fotosintetico?

Alcuni ricercatori del Wyss Institute for Biologically Inspired Engineering e della Medical School, due dipartimenti dell’Università di Harvard,  hanno bioingegnerizzato un ceppo di batteri fotosintetici rendendoli capaci di produrre zuccheri semplici ed acido lattico. Questa innovazione potrebbe condurre alla progettazione di nuovi metodi ecocompatibili per la produzione di sostanze chimiche di base in grande quantità.

Questa incredibile “fabbrica fotosintetica” potrebbe anche essere in grado di ridurre le emissioni di biossido di carbonio associate al trasporto dello zucchero a livello globale dai paesi produttori, oltre a contribuire alla produzione di plastiche biodegradabili, dove l’acido lattico riveste un ruolo importante, e infine a consentire il sequestro delle emissioni nocive di CO2 dalle centrali elettriche e altri impianti industriali, gas di cui questi batteri sono ghiotti.

In particolare, l’acido lattico viene utilizzato come monomero per la produzione di acido polilattico (PLA), a cui segue l’applicazione come plastica biodegradabile. Questo tipo di plastica è un’ottima alternativa per sostituire la plastica tradizionale prodotta dal petrolio,  oltre alla sua elevata biodegradabilità, anche per le minori emissioni di anidride carbonica della fase produttiva, normalmente espletata tramite un processo di fermentazione.

Oltre al suo positivo e indubbio impatto ambientale quindi, questa tecnologia offre anche discreti vantaggi economici. Infatti, grazie a questo metodo basato interamente sulla fotosintesi, il costo di produzione di zuccheri, acido lattico e altri composti diventerebbe decisamente competitivo rispetto ai metodi tradizionali.

Le attuali ricerche del Dr. Jeffrey Way e del team della dottoressa Pamela Silver, rappresenta solo l’ultima delle innovazioni di un programma ad ampio spettro in cui l’Istituto Wyss, in collaborazione con diversi partner, è impegnato nello sviluppo di metodi ambientalmente sostenibili per la produzione di biocarburanti, di idrogeno, di additivi alimentari e di altri prodotti chimici ad alto valore aggiunto.

Inutile ricordare che i batteri sono degli instancabili lavoratori, non hanno sindacati e non scioperano, non si mettono in mutua, non chiedono un salario, ma soprattutto non ti fanno le scarpe per inseguire la propria carriera! 😀

Fonte: PhysOrg

Il botulino trasforma gli uomini (e le donne) in algidi Vulcaniani!

Il cosiddetto “botulino“, chiamato anche “Botox”, è una tossina, una proteina neurotossica che viene prodotta da un batterio, il Clostridium botulinum. Questo batterio, responsabile di quella grave intossicazione alimentare chiamata botulismo, produce uno dei veleni naturali più potenti fra quelli conosciuti, ed è la proteina più tossica esistente.

Considerata anche come arma chimica minore, la tossina botulinica ha trovato impiego per la terapia di alcune serie patologie, come l’acalasia, la distonia cervicale o il trattamento della spasticità, ma l’uso più noto è sicuramente quello adottato in medicina estetica, per un effimero miglioramento temporaneo delle rughe di espressione fra le sopracciglia (linee glabellari) e altri inestetismi.

Alcuni ricercatori hanno di recente studiato gli effetti del Botox,  scoprendo che la paralisi dei muscoli facciali può ridurre il feedback sensorio al cervello, che a sua volta riduce l’intensità delle reazioni emotive, soprattutto per gli stimoli moderatamente positivi.

Joshua Davis, uno psicologo del New York Barnard College, afferma che una persona trattata con Botox può rispondere ad uno stimolo emotivo, ma la capacità limitata di modificare le espressioni del viso porta ad un feedback, una risposta alla paralisi verso il cervello,  diversa e limitata a causa di questa inespressività acquisita artificialmente. Davis riferisce che questo effetto ha permesso agli scienziati di progettare un test sull’ipotesi del feedback facciale (FFH) che suggerisce come le espressioni facciali possano influenzare l’intensità dei sentimenti in risposta alle esperienze emotive.

Il dottor Davis, Ann Senghas, e altri colleghi hanno studiato un campione di persone in trattamento con Botox, mostrando a ogni soggetto  video con contenuti che scatenano l’emotività prima e dopo le iniezioni. Una parte del gruppo è stato trattato con Restylane (nome commerciale dell’acido ialuronico), alternativa che viene iniettata nelle rughe del viso e delle labbra per contrastare il decadimento della pelle, ma che non limita il movimento del muscolo. Tuttavia, anche questo metodo è affetto da molte criticità.

I risultati, pubblicati sulla rivista specializzata Emotion, indicano che i pazienti accusano un “significativo calo complessivo nella forza dell’esperienza emotiva” rispetto al gruppo trattato con Restylane. La risposta a videoclip con immagini di positività si riduce particolarmente  dopo le iniezioni, mentre il gruppo trattato con Restylane non ha manifestato una ridotta risposta emotiva, anche se ha mostrato un aumento inaspettato delle reazioni in risposta a videoclip negative.

Le iniezioni di Botox sono state le procedure estetiche non chirurgiche più comuni negli Stati Uniti nel 2009, secondo l’American Society for Aesthetic Plastic Surgery.

In altre parole, è accettabile sacrificare l’emotività per una mera ed evanescente illusione di bellezza? Un atto egoistico che si propone esclusivamente di appagare e soddisfare l’ego, stimolando l’emotività altrui indossando una maschera che falsa il nostro aspetto, non potrà mai essere una soluzione intelligente. Se invece desiderate diventare un algido vulcaniano, privo di qualsiasi sfumatura emotiva, allora fate pure, la cosa non vi sfiorerà neppure. Dopo.

Fonte: PhysOrg

Una fuel cell per la ricerca della vita extraterrestre

Lo schema della microbial fuel cell

Come impostereste un test per la ricerca di forme di vita, in dotazione a una sonda spaziale destinata a missioni di ricognizione e osservazione su altri pianeti?

Sembra davvero un problema piuttosto complesso. Negli anni ’70, le sonde Viking della NASA effettuarono tre esperimenti sulla superficie di Marte specificamente progettati per cercare la vita.

Con lo stupore di tutti, questi esperimenti si conclusero con risultati positivi. Ma l’entusiasmo si spense improvvisamente quando gli scienziati  compresero che  gli esiti dei test non erano stati causati da forme di vita, ma dalla presenza di un ambiente fortemente ossidante. Pertanto questi risultati erano solo un falso positivo (anche se non tutti si trovarono d’accordo su questo aspetto).

Da allora, nessun altra sonda ha effettuato ulteriori test per scoprire la vita direttamente, ma l’attenzione si è rivolta verso la raccolta di elementi che siano una prova rivelatrice della presenza di esseri viventi.

Ximena Abrevaya e i suoi colleghi dell’Università di Buenos Aires in Argentina suggeriscono una nuova soluzione a questo problema. Dicono che una cella a combustibile microbico sarebbe in grado di rilevare la vita in modo del tutto indipendente dalla composizione chimica. L’ipotesi sine qua non è basata sul fatto che la forma di vita in questione deve assumere energia chimica dall’ambiente e usarlo per alimentare il proprio processo  vitale, in altre parole deve avere almeno un processo metabolico.

La squadra di Abrevaya ha messo a punto e testato proprio una cella di questo tipo. Il dispositivo consiste in un anodo e un catodo separati da una membrana permeabile ai protoni. L’anodo è incorporato nel supporto a contatto con l’oggetto dell’indagine, come ad es. il suolo marziano.

L’idea è che i processi metabolici, ovunque essi si siano evoluti, devono dipendere da reazioni di ossido-riduzione (redox) che generano flussi di elettroni e protoni. L’anodo della pila a combustibile cattura gli elettroni generati in questo processo, mentre i protoni passano attraverso la membrana, completando così il circuito. Quindi la quantità di corrente che scorre è un indicatore diretto della quantità di vita presente.

Il Viking I

I primi test sono stati svolti determinando la presenza dei principali tipi di vita microscopica: batteri, archaea e cellule di eucarioti. Il team afferma di aver ottenuto risultati incoraggianti, come alcune rilevazioni positive su estremofili (Natrialba magadii, un microorganismo isolato dal lago Magadii Lake in Kenya che sopravvive in condizioni di elevate concentrazioni saline), come quelli che potrebbero esistere altrove nel sistema solare. Le densità di corrente rilevate sono state di gran lunga superiori quando il dispositivo analizzava campioni vitali, rispetto a quelli sterili.

Il dispositivo pertanto si presterebbe come candidato per i prossimi test sull’esobiologia, caricato su un lander potrebbe facilmente prelevare due campioni di suolo, sterilizzarne uno con il calore, e confrontare i due risultati per accertare la presenza della vita.

Ma ciò che più sorprende è che il sistema non necessita di rilevare forme di vita basate esclusivamente sul carbonio. Purtroppo i dettagli di questo aspetto non sono stati approfonditi, probabilmente a causa del fatto che esiste ancora qualche possibilità di ottenere falsi positivi e occorre perfezionare ancora alcuni aspetti del sistema di rilevamento.

Nel frattempo, si potrebbe cercare di ipotizzare, in base alle analisi delle atmosfere extraterrestri, quali siano i migliori candidati per i prossimi test. E’ noto che milioni di anni di azione microbiotica, altera in maniera considerevole la composizione atmosferica. La presenza di ossigeno e metano nella nostra atmosfera è un chiaro segnale dello sviluppo biologico. Purtroppo l’analisi dell’atmosfera di Marte, composta dal 95% di anidride carbonica, è una deludente conferma che invece bisogna rivolgersi altrove.

Che ne dite di Titano o Encelado, due fra i più noti ospiti potenziali di strane, nuove forme di vita aliene?

Fonti: technologyreview, arxviv

I batteri del metano di Marte

Distribuzione del metano nell'atmosfera di Marte durante il periodo "estivo" nel suo emisfero settentrionale

Sembra che ulteriori indizi favoriscano le ipotesi recenti della presenza di una fervida vita microscopica nelle ridenti valli marziane, alimentata dagli squilibri produttivi del metano, che pongono ancora interessanti interrogativi.

Marte possiede un’atmosfera estremamente rarefatta, composta per oltre il 95% da CO2, il resto comprende azoto  (2,7%), argo (1,6%) e tracce importanti di ossigeno, CO, vapore acqueo, NO, ozono e altri gas nobili. Dagli ultimi rilievi del 2004 effettuati dalla sonda europea Mars Express, è stata confermata anche la presenza di metano (CH4) in quantità non trascurabili che si aggirano intorno alle 10 parti per miliardo (10,5 ppb). Per confronto, nell’atmosfera della Terra di metano  ne misuriamo più di 100 volte tanto  (1790 ppb).

L’aspetto intrigante risiede nel fatto che il metano, essendo un gas instabile a causa della sua elevata reattività, implica la presenza di una fonte attiva per esistere, e anche la sua degradazione fotochimica, secondo i modelli teorici, non giustifica questa presenza. Non è giustificabile nemmeno a causa dell’assenza di attività vulcanica e idrotermale sulla superficie.

Il metano su Marte viene prodotto da estese sorgenti, ed i profili implicano che viene rilasciato almeno da tre distinte regioni. In piena estate boreale, la fonte principale emette 19.000 tonnellate di metano in media, con un flusso di 0,6 kg al secondo. A questo ritmo si stima che il pianeta rosso debba produrre circa 270 tonnellate di metano all’anno.

Sebbene la presenza di questo gas potrebbe essere ascrivibile ad un’origine minerale, come sottoprodotto della reazione fra acqua, anidride carbonica e l’olivina, un minerale siliceo presente in quantità sulla superficie di Marte, per confermarlo bisognerebbe determinare la presenza della serpentinite, il prodotto solido della reazione citata. Esiste inoltre la remota possibilità che il metano si formi dalla decomposizione di giacimenti di clatrati idrati, una specie di ‘soluzione’ solida tra metano (e altri gas) e acqua.

L’ipotesi più affascinante però, si avvale della  scoperta che la presenza di metano è sempre associata a quella di vapore acqueo, soprattutto in alcune regioni equatoriali. Il planetologo H. Grinspoon (Southwest Research Institute) pensa che questa coincidenza aumenti le probabilità di un origine biologica.

Lost Hammer Spring presso l'isola Axel Heiberg, territorio di Nunavut, Canada. (Credit: Dept. Natural Resource Sciences, McGill University, Montreal.)

 

Un’ulteriore conferma di queste teorie biogeniche sembra che arrivi proprio in questi giorni, proveniente nientemeno che dai ricercatori del dipartimento delle risorse naturale della McGill University, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche del Canada, dall’Università di Toronto e dal SETI Institute, i quali hanno scoperto la presenza di alcuni batteri metanotrofi (il cui metabolismo consiste in un ciclo ‘alimentare’ a base di metano, contrapposti ai batteri metanogeni), nell’ambiente estremo di un isola a nord del Canada, Axel Heiberg Island.

Il dottor Lyle Whyte, un microbiologo dell’Università di McGill, spiega che la sorgente di Lost Hammer può sostenere la vita batterica in un ambiente anaerobico, e che è molto simile a sorgenti presenti con tutta probabilità anche su Marte, suggerendone una popolazione microbica analoga.

“Il punto della ricerca è che non importa da dove il metano provenga” spiega Whyte. Se in una situazione in cui si dispone di acqua salata molto fredda (anche fino a -50°C!), prolifera una comunità microbica, anche in ambienti senza ossigeno, è lecito ipotizzare lo stesso anche su altri pianeti con condizioni ambientali simili.

Un quesito che rimarrà insoluto ancora per un po’, almeno fino a quando il Mars Science Laboratory (MSL), chiamato anche Curiosity, un rover della NASA che verrà lanciato nell’autunno del 2011 ed effettuerà un atterraggio di precisione su Marte nei primi mesi del 2012, misurerà con il metodo del C14 il metano presente, determinandone l’origine, biologica o meno.

La NASA inoltre ha rivelato l’ambizioso obiettivo di lanciare la missione Mars Orbiter Trace Gas nel 2016, per studiare ulteriormente il metano,  nonché i suoi prodotti di decomposizione, come la formaldeide e metanolo.

Con la speranza che un giorno si riesca a colonizzare anche le sterminate sorgenti marziane, sfruttando impietosamente la popolazione autoctona di batteri indigeni come novelli e futuri microscopici schiavi … Mi auguro che non abbiano una coscienza collettiva proto-comunista da sedare!!!

 

Fonte: ScienceDaily

Batterie a carica batterica

Esiste un batterio per degradare praticamente ogni tipo di composto organico e la decomposizione produce energia. Questi due principi sono alla base delle ricerche di un gruppo di ricercatori dell’Arizona State University, guidati dal Dr. Prathap Parameswaran nella produzione di energia eco-compatibile.

Il Dr. Prathap Parameswaran e la sua cella a batteri

Già nel 2008 veniva annunciata una speciale cella elettrochimica alimentata da metaboliti batterici (chiamate MFC, MEC o MXC), evidenziandone alcune criticità, come le scarse conoscenze scientifiche nel campo, ma contando sulle enormi potenzialità del procedimento si è giunti ad un importante sviluppo.

Le celle MFC sono in grado di sfruttare la “respirazione” batterica come un mezzo per generare un flusso di elettroni, di fatto producendo una differenza di potenziale che opportunamente applicata a due elettrodi immersi in acqua induce l’elettrolisi generando idrogeno.

Queste celle appaiono come una specie di batteria divisa in due sezioni e i batteri proliferano nella camera del polo positivo (anodo), dove gli elettroni prodotti si coniugano con i protoni presenti al catodo per formare idrogeno gassoso. Secondo Parameswaran, l’esito finale della reazione può variare cambiando alcune condizioni.

Quando i batteri crescono in anaerobiosi (un ambiente privo di ossigeno), aderiscono all’anodo della cella, formando una matrice appiccicosa di zuccheri e  proteine, e se alimentati con composti organici si crea una sorta di collaborazione fra diversi microorganismi nel biofilm anodico, composto da batteri fermentativi, consumatori di idrogeno e un’altra classe di batteri chiamati ARB (anode respiring bacteria). Questa matrice vivente è un buon conduttore, ed è in grado di trasferire efficacemente gli elettroni verso l’anodo, generando così una differenza di potenziale.

Negli ultimi sviluppi di questa ricerca, si è dimostrato che il flusso di elettroni può essere ottimizzato selezionando opportuni ceppi batterici omoacetogenici, che catturano l’idrogeno da materiali di scarto (rifiuti) producendo acetati, i quali sono ottimi donatori di elettroni  per i batteri anodici. Sembra che la collaborazione sintrofica fra i diversi batteri nelle condizioni più favorevoli, aumenti notevolmente la conversione di elettroni per la produzione di idrogeno.

Ulteriori sviluppi in questo campo potrebbero spianare la strada per un eventuale commercializzazione su larga scala di sistemi per il trattamento delle acque reflue e produrre allo stesso tempo energia pulita. “Una delle più grandi limitazioni in questo momento è la nostra mancanza di conoscenza”, afferma Cesar Torres, uno dei co-autori di questo studio, che sottolinea che c’è ancora molto da capire circa le interazioni delle comunità batteriche all’interno delle MXC.

Un percorso promettente che potrebbe rappresentare una semplice soluzione a due grandi problemi del mondo moderno.

Fonte: PhysOrg